Ombre di Simone Cruso

Ombre di Simone Cruso

Nell’ombra sul muro il mio profilo si è staccato dal mio corpo, lo guardo dal letto con un occhio chiuso per puntarne i movimenti, ogni piccolo cambiamento. Per convenzione sono io che manovro l’immagine, ma l’ombra sono certo che si muova, che si gonfi nel respiro; di me non posso dire lo stesso. Ora sta cercando di arrampicarsi sulla porta e ha poggiato un piede sul davanzale, forse vuole uscire. Mi ricordo che le lenzuola sono indurite e fresche perché ieri ho lasciato la finestra aperta. Alle mie spalle è successo qualcosa perché l’ombra si è fermata di colpo. Dura un attimo. Poi scivola in basso verso il pavimento e si allunga sul soffitto, contemporaneamente abbraccia i muri, si distende enorme sopra di me venendomi incontro velocissima e senza forma, chiudo gli occhi. Quando li riapro l’ombra non c’è più o forse ha coperto tutta la stanza e ora è lei che guarda senza avere più bisogno di me. È passata una nuvola e l’ombra è tornata sulla mia pelle, ma sento che si è fermata appena un passo prima di fare la pace.
Non so da quanto tempo sono a letto e non ricordo da quando ho cominciato a guardarmi l’ombra, a preferirla al corpo. Immagino che sia iniziata per comodità, sui muri non hai attributi e sfumature, sei una macchia senza spessori facilmente riconoscibile e comodamente orientabile. Ti basta un colpo d’occhio per capire cosa stai facendo e non puoi andare troppo lontano, ti appiccichi al mondo senza l’inconveniente della tua presenza e senza rischio. Almeno così è all’inizio, poi l’ombra comincia a non rispondere perfettamente. Ti prende di sorpresa con una posa che non ti aspetti e smette di ascoltare i tuoi movimenti, fa di testa sua, allora la osservi con una curiosità che non avevi messo in conto e che non dà soddisfazione. A volte ti sembra di vederla ridere del tuo stupore, ti incaponisci a scrutare, a indovinare la fisionomia della sua prossima mossa e ad anticiparla, ma ormai ha imparato a sfuggirti. Ti prende la rabbia, tiri occhiate come fossero pugni, ma alla fine rimane solo la sconfitta e ti ritrovi nel letto, come me.

Il primo passo l’ha sentito nello stomaco e l’ho sentito anch’io, mi ha curvato la schiena e mi ha aperto la bocca. Sul pavimento deve essersi girata, tra le scapole sento il mio peso che mi raddrizza e mi rimette in piedi. Così siamo a due, una sofferenza spuntata e un ricordo abbattuto; quando è nata siamo partiti da lì, devo averle fatto male.
L’ombra riprende forma, la nuvola sta andando via e lei mi gira attorno, dondolando un po’ prima di fermarsi. Le metto gli occhi nel buio delle orbite piatte e la fisso, lei avvolge lo sguardo mostrandomi impettita l’intera stanza. Vedo i muri, l’armadio, la portafinestra, vuole dirmi che può essere dappertutto e posarsi su qualsiasi cosa, che non ho scampo. Sento il sorriso beffardo con cui descrive il giro del mio volto, ma riconosco quello che ho intorno in tutte le crepe nei muri, negli scricchiolii dell’armadio, nella sverniciatura della portafinestra, luoghi di un tempo che lei non conosce e in cui non può arrivare. Ne scelgo uno, un buco sopra la scrivania a cui era appesa una foto di non ricordo chi, manca il chiodo e l’intonaco è un po’ sfarinato. Faccio due passi e altrettanti ne fa lei per seguirmi, poi mi sposto su un lato e trascino la scrivania senza preoccuparmi di schiacciare l’ombra, che salta su un cassetto e si siede con la schiena appoggiata al muro. A terra trovo il chiodo, lo prendo e inizio a scavare il buco, cede con facilità e stucco e vernice si spolverano sul pavimento, fino a quando diventa abbastanza grande da infilarci un dito dentro. Rigiro l’indice grattando la polvere grigia e l’ombra mi guarda senza capire, allora assaggio il dito e pulisco con un dente la parte bassa dell’unghia. Sa di me e mi asciuga la lingua. Ora non ride più. Strattono l’ombra e la faccio scendere dalla scrivania avvicinandomi alla sveglia che non regolo da tempo, la prendo ed esco sul balcone, non ho molto tempo.

Non serve la cura dell’attenzione per avvertire l’assenza di limiti, basta lo slancio. 11:57, un treruote è sparito nella curva della roccia ed è sceso nel mare, sono stato nel suo rumore e nella roccia; l’acqua pulisce la spiaggia e a bagnare i grani ci sono anch’io, che sono i grani e l’acqua. Il mare non fa ombra, la mia è stesa dietro di me piccola e storpia sugli spigoli dei mattoni, 11:58. Tiro immagini a boccate e le restituisco sfilando via i contorni, tutto si mischia nell’intervallo di un respiro e si ricompone mansueto a preparare nuovi intrecci. Mi sostiene la quantità di mondo che c’è da respirare, la possibilità di un fresco affanno; l’ombra è ridotta al rantolo di una piccola scia scura dietro i miei talloni, 11:59. Potrei parlarci, per la prima volta, e sforzarmi di sentire la sua voce dall’incavo dei miei piedi, invece smetto anche di guardarla, senza un commiato e senza la sacralità del saluto. Diventerà un altro ricordo, la cartolina di un viaggio da fermo che porterò appunta al corpo senza nostalgia. È mezzogiorno, il mare non fa ombra e nemmeno io.

Simone Cruso





Pubblicato da Raffaele Cecoro

Raffaele Cecoro ([email protected]) Casertano, laureato in giurisprudenza con una forte passione per la scrittura e per la letteratura. Da qualche mese ha cominciato la stesura del suo primo romanzo e nel tempo libero redige un blog letterario multitematico, il suo stile è un ibrido di humor e serietà.