I CLASSICI | Traduzione Del Satyricon Di Petronio

I CLASSICI | Traduzione Del Satyricon Di Petronio

Continua il nostro viaggio attraverso i classici latini e greci tradotti ed oggi abbiamo il piacere di presentarvi: il Satiricon di Petronio. L’opera racconta le vicissitudini di Encolpio, il giovane protagonista, di Gitone, il suo amato efebo, e dell’infido amico-nemico Ascilto. L’antefatto, soltanto deducibile, racconta di un oltraggio commesso da Encolpio nei confronti della divinità fallica Priapo, che da lì in poi lo perseguita provocando al protagonista una serie di insuccessi erotici.

classici04

TRADUZIONE

1 «Sono forse di un altro tipo le smanie che tormentano i declamatori
quando affermano: “Queste ferite me le sono procurate per la libertà del
paese; quest’occhio l’ho perso per voi; datemi una guida che mi guidi dai
miei figli perché i garretti recisi non mi reggono più in piedi”?
Sproloqui come questi sarebbero di per sé sopportabili se facilitassero la
strada a quelli che vogliono darsi all’oratoria. Ma a forza di tirate
piene di niente e frasi berciate a vanvera, il solo effetto che ne deriva
è di farli sentire in un altro mondo non appena mettono piede nel foro. Ed
è per questo, a parer mio, che nelle scuole i ragazzi rimbecilliscono
perché non vedono e non sentono niente di quello che abbiamo sotto mano,
ma solo pirati che tendono agguati sulle spiagge con tanto di catene,
tiranni che emettono editti con l’ordine ai figli di tagliare la testa ai
propri padri, responsi di oracoli che impongono di immolare tre o più
verginelle per placare un’epidemia, o ancora bolle di parole in salsa di
miele e tutti quei fatti e detti che sono come conditi col sesamo e il
papavero.
2 Chi va avanti nutrendosi di questa roba, non può avere gusto più di
quanto non profumino quelli che vivono in cucina. Lasciatemelo dire, vi
prego, ma l’eloquenza siete stati voi retori i primi a rovinarla. Grazie
ai vostri giochetti deliranti con suoni vacui e inutili svolazzi, avete
snervato il corpo del discorso facendolo crollare a terra. I giovani non
si erano ancora impastoiati nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide
trovarono le parole con le quali dovevano esprimersi, e il maestro in
naftalina non aveva ancora danneggiato gli ingegni, quando Pindaro e i
nove lirici rinunciarono a cantare sui ritmi di Omero. E per non citare
soltanto i poeti, a quanto ne so, né Platone né Demostene si diedero mai a
questo genere di esercizi. L’oratoria grande e – mi verrebbe da dire –
onesta non vive di trucchi né di gonfiature, ma svetta per bellezza
naturale. È da poco che questa logorrea tutta vuoti e turgori si è
abbattuta dall’Asia su Atene, e come una stella del male ha invasato le
menti delle giovani promesse, così che, una volta corrotti i princìpi,
l’eloquenza è rimasta basita nel suo silenzio. Insomma, chi è più riuscito
a uguagliare la fama di un Tucidide o di un Iperide? Ma neppure la poesia
ha più avuto un bell’aspetto, e tutti i suoi generi, come se si fossero
nutriti dello stesso cibo, non sono riusciti a invecchiare fino ad avere i
capelli bianchi. Alla pittura è toccata la stessa sorte, quando quegli
sfrontati degli Egizi hanno trovato la scorciatoia per un’arte tanto
eccelsa».

3 Ad Agamennone non andò a genio che io declamassi nel portico più a lungo
di quanto lui non avesse sudato a scuola e disse: «Giovanotto, visto che
la tua tirata non incontra il gusto della gente e, cosa davvero insolita,
hai del sale in zucca, voglio svelarti i segreti del mestiere. In questi
esercizi la colpa non è di certo dei maestri: passando il tempo coi
dementi, finiscono per diventare dementi anche loro. Infatti se non
insegnassero quello che aggrada ai ragazzini, come dice Cicerone “a scuola
ci rimarrebbero solo loro”. Prendi gli adulatori da commedia: per
scroccare pranzi ai ricchi rimuginano tra sé e sé solo quello che a loro
parere manderà in visibilio l’uditorio – e infatti non riescono mai a
ottenere quel che desiderano se non tendono qualche trabocchetto alle
orecchie. Stessa cosa per il maestro di eloquenza: come il pescatore, se
non attacca all’amo l’esca che piace ai pesciolini, resterà sullo scoglio
senza che abbocchi mai nulla.
4 E allora che fare? È coi genitori che bisogna prendersela perché non
vogliono che i loro rampolli facciano progressi sottostando a severa
disciplina. Tanto per cominciare sacrificano tutto, ivi incluse le proprie
aspettative, all’ambizione. In secondo luogo, pur di centrare in fretta
gli obiettivi, buttano nel foro dei ragazzotti immaturi, e imbottiscono di
retorica – che a loro detta non ha eguali – dei bambinetti appena nati. Se
invece lasciassero allo studio uno sviluppo graduale, permettendo così ai
giovani di modellare le proprie menti sui precetti della filosofia, di
migliorare lo stile con rigore impietoso, e di soffermarsi a lungo sui
modelli da imitare, convincendosi che non è affatto una gran cosa quello
che piace ai bambini, allora sì che la grande oratoria ritroverebbe tutto
il prestigio della sua maestà. Ma al giorno d’oggi a scuola i ragazzi
passano il tempo a giocare, nel foro i giovani si rendono ridicoli e –
cosa ben più umiliante – i vecchi non hanno il coraggio di ammettere di
aver studiato in passato soltanto boiate. Ma perché tu non debba pensare
che io ce l’ho con le improvvisazioni alla buona alla maniera di Lucilio,
eccoti la mia opinione in versi:
5 Chi punta agli effetti di un’arte austera
e rivolge la mente a grandi cose, depuri
innanzitutto i suoi costumi con princìpi severi.
Sdegni con viso aperto la reggia truce,
non punti a mense ricche da cliente di signori,
non si mescoli alla feccia svilendo nel vino
la fiamma del talento, né sieda in teatro
a fare da claque al soldo di un istrione.
Ma sia che gli sorrida la rocca di Pallade in armi,
o la terra abitata dal colono spartano
o la dimora delle Sirene, dedichi ai versi
i suoi primi anni e beva con animo lieto al fonte Meonio.
Poi, dopo aver pascolato col gregge di Socrate,
spazi pure libero a briglie sciolte brandendo le possenti armi
di Demostene. Lo circondi quindi la massa dei Romani,
e libera dai ritmi greci lo infonda di inediti aromi.
Talora lasci il Foro la penna e fugga via nel vento,
e la Sorte risuoni scandita da un ritmo veloce.
Diano pure lo spunto conflitti cantati da truce cantore,
solenni tuonino le parole dell’indomito Cicerone.
Adòrnati l’animo di queste bellezze: invaso da simili acque feconde,
verserai dal tuo petto parole degne delle Muse».
6 Occupato com’ero ad ascoltarlo, non mi rendo conto che Ascilto se l’era
squagliata… E mentre passeggiavo in giardino nell’imperversare di quel
mare di parole, arriva sotto il portico una gran massa di studenti,
reduci, lo si capiva benissimo, dalla declamazione estemporanea di un
pincopallino che aveva attaccato a parlare dopo l’esibizione di
Agamennone. Così, mentre quei giovani se la ridevano dei temi trattati e
criticavano l’intera struttura del discorso, prendo la palla al balzo e me
la svigno, buttandomi di corsa sulle tracce di Ascilto. Non seguivo però
un percorso preciso, né mi ricordavo dove fosse la mia locanda. E così,
dovunque mi dirigessi, continuavo a ritrovarmi al punto di partenza,
finché, sfinito dalla corsa e ormai fradicio di sudore, mi accosto a una
vecchietta che vendeva verdure dei campi e le chiedo:
7 «Senti un po’, nonnina, sai mica dove abito?». Divertita dalla demenza
della mia battuta, risponde: «Lo so sì», si alza e comincia a farmi
strada. Io credevo fosse un’indovina e…
Dopo un po’ arriviamo in una zona fuori mano: lì quello spasso di
vecchietta scosta una tenda color birulò e fa: «Mi sa che abiti qua». E
mentre io le ripetevo che quella casa non l’avevo mai vista, vedo dei tizi
che si aggirano furtivi in mezzo a delle scritte invitanti e a prostitute
senza niente addosso. Capisco allora, anche se è ormai troppo tardi, di
essermi lasciato trascinare in un bordello. Così, imprecando contro il
tiro giocatomi dalla vecchia, mi copro la testa e, attraversando il
bordello, me la dò a gambe verso la parte opposta, quando ecco che proprio
sulla porta mi imbatto in Ascilto pure lui stanco morto come me. Probabile
che lì ce l’avesse trascinato la stessa nonnina. Perciò lo saluto con una
risata e gli chiedo che cosa ci fa in un buco tanto laido.
8 Lui si asciuga il sudore con le mani ed esclama: «Se solo sapessi cosa
m’è capitato!». «E come faccio a saperlo?» gli faccio io. Ma lui, con un
filo di voce, aggiunge: «Mentre stavo girando la città in lungo e in largo
senza trovare dove avevo lasciato il nostro alloggio, mi si accosta un
tipo stile padre di famiglia e gentilissimo promette di farmi strada lui.
Poi però, attraverso una serie di vicoli uno peggio dell’altro, mi ha
trascinato fino qua e, tirando fuori di tasca i soldi, ha iniziato a
insistere perché cedessi alle sue voglie. La tenutaria si era già presa i
soldi della stanza, quello aveva già iniziato a mettermi le mani addosso,
e se non fossi stato più grosso di lui, l’avrei pagata cara».
*
A tal punto mi sembrava che tutti lì intorno avessero tracannato satirio.
*
Unendo le forze ci sbarazzammo di quel rompipalle.
*
9 [ENCOLPIO]. Come se fosse avvolto dalla nebbia, vidi Gitone in piedi sul
marciapiedi di un vicolo e mi precipitai a razzo da quella parte.
Mentre mi informavo se il fratellino ci aveva preparato qualcosa da
mettere sotto i denti, il povero ragazzo si venne a sedere sul letto,
asciugandosi col pollice le lacrime che gli inondavano la faccia. E io,
colpito dallo stato del piccolo, gli chiesi che cosa fosse successo. Lui,
diciamocelo, dopo un bel po’ e senza troppo entusiasmo, e solo quando
dalle preghiere ero passato alle maniere forti, disse: «Il tuo bel
fratellino, o degno compare che sia, un attimo fa si è scaraventato qui e
ha iniziato a fare di tutto per attentare al mio pudore. E quando io ho
attaccato a strillare, lui ha tirato fuori la spada e mi ha detto: “Se
giochi a fare Lucrezia, allora eccoti qua il tuo Tarquinio!”».
A sentire queste cose, saltai agli occhi di Ascilto pronto a prenderlo a
cazzotti e gli urlai: «Cos’hai da dire tu, culattone passivo che di pulito
non hai nemmeno il fiato?». Ascilto finse di andare in bestia e, agitando
più forte i pugni, gridò con più voce ancora: «Ma piantala tu, schifoso di
un gladiatore scampato al massacro del circo! Pezzo di galera che non sei
riuscito a farti una donna a posto nemmeno quando ti tirava ancora.
Proprio tu che nel parco mi facevi lo stesso servizio che adesso in questa
locanda tocca al ragazzino!». «Sentitelo!» ribattei io, «tu che te la sei
svignata nel pieno dell’interrogazione col maestro!».
10 «O razza di deficiente, cosa ci potevo fare se morivo di fame? Forse
stare a sentire quei deliri a base di paccottiglia e interpretazioni di
sogni? Per Dio, sei ben più schifoso tu che per farci scappare una cena ti
sei messo a tessere le lodi del poeta!». Ma alla fine, dopo tutta quella
baraonda vergognosa, la buttiamo sul ridere per occuparci più
tranquillamente del resto.
*
Poi però, ripensando al torto subito, gli faccio: «Ascilto, guarda che tra
noi due non può mica funzionare. Dividiamoci quei due stracci che abbiamo
e vediamo di sbarcare il lunario ciascuno per conto suo. Un briciolo di
cultura ce l’abbiamo tutti e due. Per non intralciarti nei tuoi giri, ti
prometto di mettermi a fare dell’altro: se no finisce che ogni giorno
saltano fuori mille motivi per litigare e a forza di risse a parole
diventiamo lo zimbello di tutta la città». Ascilto, che non aveva nessuna
obiezione, mi risponde: «Visto che oggi, in qualità di studenti, ci siamo
guadagnati una cena, cerchiamo di non rovinarci la serata. Vuol dire che
domani (è questo che vuoi, no?) mi andrò a cercare un’altra locanda e un
altro compagno». «Certo che è una seccatura» ribatto io, «dover rimandare
quanto si è deciso».
*
A spingermi a una separazione così frettolosa era la foia: da un pezzo
infatti volevo togliermi di torno quel rompi di un guardiano per
riallacciare con Gitone il rapporto di un tempo.
*
11 Dopo aver setacciato ogni angolo della città, me ne torno nella mia
stanzetta e lì, ottenuti finalmente dei baci come si deve, mi avvinghio al
ragazzino con abbracci da favola, centrando il mio obiettivo da fare
invidia. Ma non avevo ancora fatto tutto per bene, che Ascilto,
avvicinatosi alla porta in punta di piedi, rompe i chiavistelli con una
spallata e mi becca che me la spasso col fratellino. Riempiendo la stanza
di risate e applausi, tira via il mantello che avevo addosso e grida: «Che
stavi combinando, razza di santerellino? In due sotto la stessa coperta,
eh?». E mica si ferma alle sole parole. No, tira fuori la cinghia dalla
valigia e attacca a menarmi di santa ragione, in più ripetendo con tono
sfacciato: «Così impari a non dividere con un fratello».
*
12 Al tramonto arriviamo al mercato, e lì vediamo esposta una quantità di
merce che non era proprio di gran valore, ma la cui provenienza alquanto
sospetta passava facilmente inosservata nel lusco e brusco dell’ora. Dato
che anche noi ci eravamo portati dietro il mantello rubato, decidemmo di
prendere al volo l’occasione e, piazzatici in un angolo, attaccammo a
sbandierarne l’orlo, nella speranza che la bellezza del tessuto attirasse
per caso qualche acquirente. Un attimo dopo un contadino, che a me
sembrava però di avere già visto, ci si avvicina con una donnetta al
fianco e si mette a esaminare il mantello con grande attenzione. Ascilto a
sua volta attacca a fissare le spalle del villico, e tace di colpo,
sbigottito. Allora scruto anch’io il tizio, non senza una certa
apprensione, perché mi dà l’impressione di essere quello che aveva trovato
la tunica nella grotta. E infatti era proprio lui. Ascilto, non fidandosi
degli occhi e non volendo del resto agire in maniera avventata, prima gli
si avvicina dando l’impressione di voler anche lui comprare e poi gli tira
giù dalle spalle un lembo del mantello e attacca a tastarlo con cura.
13 Che incredibile botta di fortuna! Quel bifolco non era curioso e fino a
quel momento non aveva ancora frugato tra le cuciture, ma cercava di
sbarazzarsi del mantello con aria seccata e come se si trattasse dello
straccio di un barbone. Ascilto, rendendosi conto che il malloppo non era
stato toccato e che il tipo non era un’aquila come venditore, mi prende in
disparte e mi fa: «Ti rendi conto, fratello mio, che abbiamo di nuovo in
mano il tesoro che tanto mi ha fatto piangere? Il mantello è proprio
quello e a quanto pare dentro ci sono ancora le monete d’oro che fino ad
oggi nessuno ha toccato. Che si fa dunque, e a che titolo possiamo
rivendicare la nostra roba?».
E io, gongolando non solo per il fatto di vedermi davanti il bottino ma
anche perché la sorte mi aveva liberato dalla vergogna del sospetto, gli
dissi che non bisognava ricorrere a maneggi, ma che era meglio basarsi sul
codice senza tanti sotterfugi, in modo tale che, se quei due non volevano
restituire la roba al legittimo proprietario, la faccenda venisse portata
davanti al pretore.
14 Invece Ascilto, che aveva paura della legge, mi dice: «Ma qui chi ci
conosce? Chi darà retta alle nostre parole? Ora che l’abbiamo
riconosciuto, io sono dell’avviso di comprarlo il mantello, anche se è
roba nostra, e recuperare il tesoro per un tozzo di pane, senza starci a
impelagare in una causa che non si sa come possa andare a finire.
Che cosa può la legge là dove regna solo il denaro
e dove il poveraccio non la spunta mai?
Persino quelli che girano con la bisaccia dei Cinici
han l’abitudine qualche volta di vendere la verità a poche lire.
Così la giustizia non è altro che pubblica merce,
e il cavaliere seduto tra i giurati approva la vendita».
Ma in tasca non avevamo altro che due soldi per comprarci ceci e lupini. E
così, per non lasciarci sfuggire la preda, decidiamo di vendere il nostro
mantello per una miseria e di rifarci della perdita con un colpo di ben
altra portata. Non appena scioriniamo la nostra mercanzia, la donnetta col
capo coperto che era insieme al villico, dopo aver esaminato con cura
certi ricami, si avventa con le mani sull’orlo del mantello e attacca a
urlare «al ladro, al ladro!», come un’ossessa. Noi, invece, sconvolti, per
non sembrare incerti e succubi, ci buttiamo sulla tunica sbrindellata e
lercia, sostenendo con la stessa foga che quello che loro hanno in mano è
roba nostra. Ma tra gli oggetti contesi non c’era paragone: infatti anche
i rigattieri accorsi in massa alle urla se la ridevano della nostra
indignazione, perché una parte reclamava un mantello sfarzoso, mentre
l’altra, la nostra, voleva indietro una veste rattoppata inutile persino
per ricavarne strofinacci. Alla fine Ascilto fu bravo a bloccare le risate
e, ottenuto il silenzio, dichiarò:
15 «Visto che ognuno ci tiene alla roba sua, se loro ci danno indietro la
tunica, noi gli restituiamo il mantello». Al villico e alla donna l’idea
dello scambio sarebbe andata anche a genio, se non fosse stato per dei
presunti legulei (o meglio, data l’ora, dei ladruncoli notturni decisi a
impadronirsi del mantello), i quali ci intimano di consegnare in mano loro
entrambi gli indumenti, così che il giorno dopo un giudice possa
pronunciarsi a riguardo. Infatti non erano in questione soltanto quegli
oggetti, come poteva sembrare, ma andava esaminato ben altro, perché su
entrambe le parti gravava il sospetto del furto. Ormai si era già
d’accordo sul sequestro, quando uno dei rigattieri non meglio
identificato, col cranio pelato e la fronte piena di bozze, uno che a
tempo perso si andava a immischiare nei processi, arraffa il mantello
dichiarando che lo avrebbe esibito il giorno dopo in tribunale. Ma era
evidente che quelle canaglie volevano soltanto metter le mani sul
mantello, sicuri che se noi l’avessimo consegnato, il giorno dopo non ci
saremmo presentati all’udienza, per paura di essere accusati di furto.
In fin dei conti era quello che volevamo anche noi. Ma fu il caso a venire
incontro a entrambe la parti. Infatti il contadino, infuriato di fronte
alla nostra pretesa di vedere esibito anche quello straccio, buttò la
tunica sul grugno di Ascilto e ci intimò – non avendo noi più alcuna
lamentela da fare – di mollargli il mantello, che al presente restava
l’unica ragione della contesa,
*
recuperato, come pensavamo, il malloppo, ce la filiamo a rotta di collo in
pensione e, dopo esserci sprangati in camera, attacchiamo a ridere a
crepapelle sulla stupidità dei rigattieri e di quei figuri, che con tutta
la loro furbizia avevano finito col restituirci il gruzzolo.
Non voglio avere subito quel che desidero,
né amo la vittoria bella e pronta.
*
16 Avevamo appena finito di rimpinzarci coi manicaretti preparati da
Gitone, quando sentiamo bussare alla porta con fragore minaccioso.
Chiediamo pieni di paura «Chi è?», e subito da fuori una voce ci risponde:
«Apri e lo saprai». Mentre ci scambiamo queste battute, lo scrocco della
porta scivola via da solo e i battenti si spalancano, lasciando entrare il
nuovo venuto. È una donna con un velo sul viso, la stessa che poco prima
era insieme al contadino. «Credevate di avermi presa in giro?» dice. «Sono
l’ancella di Quartilla, che poco fa voi avete disturbato mentre celebrava
un sacrificio di fronte alla cripta. È venuta di persona qui alla vostra
locanda e chiede di potervi parlare. Non spaventatevi: non vuole accusarvi
né punirvi per l’errore che avete commesso. Piuttosto muore dalla voglia
di sapere quale dio mai abbia condotto dalle sue parti dei giovanotti così
a modo».
17 Mentre noi ce ne stiamo a bocca chiusa senza azzardarci a prendere
posizione, lei entra accompagnata da una ragazzina, si siede sul mio letto
e attacca a piangere come una fontana. Noi continuiamo a tacere e
aspettiamo increduli che la finisca con tutte quelle lacrime che si era
preparata per simulare un grande dolore. Quando finalmente quel diluvio da
sceneggiata si smorza, la donna si toglie il velo scoprendo un volto
indignato e, stropicciandosi le mani fino a far scrocchiare le giunture,
dice: «Che razza di sfrontatezza è mai la vostra! E dove avete imparato
questi numeri da balordi che superano di gran lunga quelli teatrali? Provo
pena per voi, dio solo sa quanto, perché nessuno ha mai assistito a
cerimonie di culto proibite passandola liscia. In ogni modo, il nostro
territorio è così affollato di numi tutelari, che in giro è più facile
trovare un dio che un uomo. Ma non crediate che sia venuta qua per
vendicarmi. Mi ha toccato più la vostra giovane età che non l’offesa
subita, perché ho l’impressione che sia stata l’imprudenza a farvi
commettere un sacrilegio tanto imperdonabile. Quella notte ebbi dei
brividi di freddo tanto preoccupanti da farmi temere un attacco di febbre
terzana. Così cercai rimedio nel sonno e mi fu ordinato di cercarvi e di
smorzare l’assalto della malattia ricorrendo a un ingegnoso espediente. Ma
al momento non è il rimedio la mia più grossa preoccupazione: mi spezza il
cuore un dolore ben più grande che finirà per togliermi la vita, e cioè la
paura che voialtri, giovani e irresponsabili come siete, andiate a
raccontare in giro quel che avete visto nel santuario di Priapo, e diate
in pasto alla gente i segreti propositi degli dèi. Per questo mi
inginocchio davanti a voi con le mani tese, chiedendovi e supplicandovi di
non mettere in burla i riti notturni, e di non rivelare segreti tanto
antichi, di cui sono venuti a conoscenza sì e no un migliaio di uomini».
18 Dopo questa implorazione, scoppia di nuovo in lacrime e, scossa da
singhiozzi esagerati, affonda il petto e il volto nel mio letto. Commosso
e impressionato al contempo, io le dico di farsi coraggio e di stare
tranquilla tanto per l’una che per l’altra cosa: nessuno sarebbe andato a
raccontare in giro i sacri misteri, e se poi un dio le avesse consigliato
qualche altro rimedio per la sua febbre terzana, non avremmo avuto
esitazioni a dare una mano alla divina provvidenza, anche a costo di
rischiare di persona. Tornata di buon umore dopo la promessa, la donna
attacca a sbaciucchiarmi da tutte le parti, e, passando dalle lacrime al
riso, mi aggiusta con tocchi languidi i capelli dietro le orecchie e poi
dice: «Con voi voglio fare pace e ritiro ogni accusa. Se però non aveste
accettato di darmi la medicina che cerco, era già pronta per domani una
banda incaricata di vendicare l’offesa fatta alla mia dignità:
Venir disprezzati è infame, perdonare è bello.
Amo seguir la via che mi piace.
Se offeso, anche il saggio chiede ragione,
ma vince davvero chi non taglia la gola all’avversario».
*
Poi, battendo le mani, scoppia in una risata tanto fragorosa che ci
spaventiamo. Dal canto loro, si mettono a fare la stessa cosa anche
l’ancella che l’aveva preceduta e la ragazzina che era arrivata con lei.
19 Tutta la stanza rimbombava di quelle risa farsesche, mentre noi, che
non riuscivamo ancora a capire che cosa avesse causato un mutamento di
umore tanto repentino, un po’ ci guardavamo negli occhi tra di noi, e un
po’ fissavamo le donne.
*
«È per questo che oggi ho dato istruzione di non fare entrare anima viva
nella locanda, per avere da voi il rimedio alla terzana, senza che nessuno
venga a interrompere». A queste parole di Quartilla, Ascilto rimase mezzo
basito, mentre io, che dentro mi sentivo più freddo di un inverno in
Gallia, non riuscivo a spiccicare verbo. A farmi escludere il peggio era
la composizione del gruppo. Loro erano infatti solo tre donnicciole per
giunta non troppo in forze e, se solo avessero osato farci qualche brutto
tiro, noi per lo meno avevamo dalla nostra il sesso. Inoltre, con la
tunica tirata in su eravamo anche meno lenti. Ad ogni modo avevo già
studiato gli accoppiamenti nel caso si fosse arrivati al corpo a corpo: io
me la sarei vista con Quartilla, Ascilto con l’ancella e Gitone con la
ragazzina.
*
In quel momento rimanemmo sbigottiti e sentimmo che le forze ci venivano
meno, mentre una morte certa cominciava a offuscare gli occhi di noi
poveracci.
*
20 «Signora», dico, «se hai in mente qualcosa di peggio, vedi di metterlo
in pratica in fretta, perché non abbiamo commesso un delitto tanto grave
da morire tra mille tormenti».
*
L’ancella che si chiamava Psiche stese con cura una coperta sul pavimento.
*
Mi maneggiò gli attributi che ormai erano freddi come se fossero morti un
migliaio di volte.
*
Ascilto aveva nel mentre infilato la testa nel mantello, perché era stato
messo in guardia sul rischio di ficcare il naso nei segreti affari altrui.
*
L’ancella tirò fuori di tasca due cordicelle, usandone prima una e poi
l’altra per legarci mani e piedi.
*
Ascilto, vedendo che la conversazione era arrivata a un punto morto: «Che
diamine?» disse «Possibile che non mi venga versato un goccetto?». E
l’ancella, chiamata in causa dalla mia risata, batté le mani e dichiarò:
«Cocco, io l’ho messo qua… Ti sarai mica bevuto da solo tutta quella
roba?». «Cosa?» interruppe Quartilla «Encolpio s’è scolato tutto il
satirio che c’era?».
*
Ancheggiò senza tanto sbracarsi in risate.
*
Perfino Gitone alla fine scoppiò a ridere, specie quando la ragazzina gli
si avvinghiò al collo, cominciando a inondarlo di baci cui lui non diceva
certo di no.
*
21 Disperati come eravamo, avremmo voluto chiedere aiuto, ma non c’era un
cane che ci potesse dare una mano. E non appena io cercavo di attirare
l’attenzione dei passanti, Psiche mi punzecchiava le guance con una
forcina da capelli, mentre la ragazzetta tormentava Ascilto con un
pennellino ugualmente imbevuto di satirio.
*
Per ultimo sopraggiunse un culattone in vestaglia color mirto con tanto di
cintura… si venne a strusciare addosso a noi agitando le natiche e ci
insozzò con dei baci schifosi, finché Quartilla, con una stecca di balena
in mano e la gonna tirata su, gli intimò di aver pietà di noi e di
lasciarci tirare il fiato.
*
Con formule sacrosante giurammo tutti e due che un segreto tanto terribile
ce lo saremmo portati nella bara.
*
Entrarono dei massaggiatori in massa che ci unsero da capo a piedi di olio
di oliva rimettendoci in sesto. Così, non sentendo più la stanchezza,
indossammo gli abiti per la cena e fummo portati in una camera attigua
dove c’erano tre letti pronti all’uso e una parata di leccornie imbandite
come dio comanda. Ci dissero di sdraiarci e subito attacchiamo con un
antipasto incredibile che inondiamo addirittura con del Falerno.
Rimpinzati da molti altri manicaretti, quando ormai stiamo per franare nel
sonno, Quartilla interviene: «Non penserete mica di andarvene già a letto,
quando sapete benissimo che questa notte va dedicata per intero al culto
di Priapo?».
*
22 Mentre Ascilto, stremato da tutte quelle avventure, non si reggeva più
in piedi dal sonno, l’ancella da lui prima ingiuriosamente respinta gli
sfrega tutta la faccia con della fuliggine e gli tatua sui fianchi e sulle
spalle tanti bei cazzetti senza che lui se ne accorga. Anch’io, stremato
com’ero da tutti quegli accidenti, comincio a pregustarmi il piacere di un
sonnellino. Lo stesso fa la servitù dentro e fuori la sala da pranzo: c’è
chi si stravacca tra i piedi degli invitati, chi invece ronfa accasciato
contro le pareti, mentre altri se la dormono in piedi sulla porta, testa
contro testa, mentre le lampade, con l’olio ormai quasi finito, spandono
una luce fioca e tremolante. In quel momento due schiavi siriani entrano
nella sala da pranzo per portarsi via una bottiglia: mentre se la
contendono con la bava alla bocca in mezzo a tutti quegli argenti, la
bottiglia sgraffignata cade e va in mille pezzi. Insieme a tutta
l’argenteria crolla a terra anche il tavolo e capita che un bicchiere
schizzato in aria per poco non mandi al creatore una serva stravaccata su
un letto. Per la botta la tipa caccia un urlo e automaticamente stana i
ladri svegliando parte della gente ubriaca. I due siriani venuti a fare il
colpo, quando si vedono scoperti, in un attimo si lasciano cadere ai piedi
di un letto, come da copione, e attaccano a russare quasi stessero
dormendo da un pezzo.
L’addetto al triclinio, svegliato anche lui, versa dell’olio nelle lampade
ormai in riserva, mentre i servi più giovani, dopo essersi stropicciati un
attimo gli occhi, tornano alle loro faccende, proprio mentre entra in sala
una virtuosa di cembalo che ci sveglia tutti con un colpo di piatti.
23 Il festino riprende e Quartilla invita di nuovo a trincare. La tipa del
cembalo fa crescere l’allegria della gozzoviglia.
*
Entra di nuovo il culattone, uomo di rara demenza e in tutto all’altezza
di quella casa, il quale, dopo aver fatto scrocchiare le dita fino a farsi
male, se ne esce con questi versi:
Qua, qua radunatevi qua mie morbide checche,
avanti, correte veloci, librate nel vento le piante,
veloci di coscia, di natica lesti, di mano sfrontati,
miei vecchi, adorati, castrati di Delo.
Dopo aver chiuso coi suoi versi, mi sbava la faccia con un bacio
schifosissimo. Poi mi salta sul letto e mettendocela tutta riesce a
spogliarmi anche se io non voglio, e si dà molto da fare, e a lungo, con
le mie parti basse, senza grossi risultati. Dalla fronte fradicia di
sudore gli colano rivoli di belletto, mentre nelle grinze del viso c’era
tanto di quel fondotinta che l’avresti scambiato per un muro scrostato
dalla pioggia battente.
24 Non riesco a trattenere più a lungo le lacrime e, arrivato al colmo
dell’avvilimento, esclamo: «Mia signora perdonami, ma avevi ordinato di
portarmi il vasino?». Lei batte con grazia le mani e replica: «Ma che tipo
sottile e che spirito da uomo di mondo! Ma come? Non avevi capito che qui
i culattoni li chiamiamo vasini?». Poi, perché ce ne fosse anche per il
mio socio, osservo: «Ma abbiate pazienza: possibile che su questo divano
Ascilto sia l’unico a essere lasciato in pace?». «Allora» risponde
Quartilla, «portate il vasino anche ad Ascilto!». A queste parole il
culattone cambia cavallo e, saltando addosso al mio compare, se lo lavora
a colpi di chiappe e di baci. Gitone, che era in piedi lì in mezzo, si
sbellicava dal ridere. Quartilla, dopo averlo avvistato, si informa per
filo e per segno di chi sia il ragazzino. E quando io specifico che è mio
fratello, lei ribatte: «Perché allora non mi ha baciata?». Lo chiama lì da
lei, gli si attacca alla bocca. Poi, ficcandogli le mani sotto il vestito,
e tastandogli l’arnese ancora in erba, commenta: «Questo verrà bene da
antipasto nell’orgia di domani: oggi che mi sono beccata una mazza
asinina, di robetta così ne posso fare a meno».
*
25 Mentre diceva queste cose, Psiche ridendo le sussurra all’orecchio
qualcosa che non riesco a capire. «Ma certo», esclama Quartilla, «è
proprio un ottimo suggerimento. Non è forse una magnifica occasione per
far sverginare la nostra Pannichide?». Fanno subito entrare una ragazzina
abbastanza graziosa e che non dimostra più di sette anni, la stessa che
era entrata nella nostra camera insieme a Quartilla. Tutti applaudono e
chiedono che si celebrino le nozze; io, invece, rimango di sasso e dico
che né Gitone, ragazzo quanto mai rispettoso, avrebbe mai avuto il fegato
di commettere una simile porcata, né la ragazzina aveva l’età per
sostenere da donna fatta un assalto in piena regola. «Non crederai mica»
interviene Quartilla «che questa qui sia più giovane di quanto ero io la
prima volta che mi è toccato andare con un uomo? Che Giunone mi
strafulmini, se mi ricordo d’essere mai stata vergine! Da bambina ho perso
il mio onore coi coetanei, poi, col passare degli anni, me la facevo con
ragazzi sempre più grandi, e così fino ad oggi. Anzi, credo che proprio di
lì venga il proverbio che dice “chi riesce a reggere un vitello, domani
potrà sollevare un toro”». Così, per evitare che al fratellino possa
succedere qualcosa di peggio lontano da me, mi alzo per assistere alla
cerimonia nuziale.
26 Psiche aveva già avvolto la testa della ragazzina nel velo nuziale
rosso porpora, il culattone ci stava già facendo strada con la torcia in
mano, e le donne, ubriache com’erano, applaudivano schierate in fila,
mentre sul letto avevano già sistemato la coperta destinata allo stupro.
Quartilla allora, più infoiata ancora da quella messinscena, si alza anche
lei, afferra Gitone per mano e lo trascina in camera.
A dir la verità la cosa non fa granché schifo al ragazzo, né sembra che la
bimbetta si spaventi a sentir parlare di nozze. Così, mentre i due si
buttano a letto dopo esser stati chiusi dentro, noi ci sediamo di fronte
alla porta della stanza, e Quartilla è la prima che, ficcando il suo
occhio vizioso in un foro praticato apposta, spia con morbosa curiosità i
giochetti dei due poppanti. Poi, con tocchi sinuosi, spinge anche me a
contemplare quello spettacolo, ma, siccome così facendo ci sfioriamo la
faccia, lei – non appena la scenetta ha un attimo di tregua – sporge in
quell’attimo le labbra e come di nascosto mi slinguazza furtiva la bocca a
colpi di baci.
*
Buttati sui letti, passiamo il resto della notte senza nulla temere.
*
Arriva il terzo giorno, cioè quello che noi aspettiamo per partecipare
alla cena d’addio. Solo che, rotti com’eravamo in tutto il corpo, l’idea
di alzare i tacchi ci andava più a genio che la prospettiva di starcene lì
a poltrire. Così, mentre discutiamo mogi mogi su quale sia il modo
migliore per evitare la tempesta che c’è nell’aria, arriva a liberarci da
ogni perplessità un servo di Agamennone che ci interpella: «Come? Ma
allora non sapete da chi si va oggi! Da Trimalcione, uno che scoppia di
soldi, e in sala da pranzo ha un orologio e un trombettiere, piazzato lì
apposta per ricordargli via via quanto tempo della sua vita se n’è
andato». A queste parole, scordandoci di tutti i nostri guai, ci
intabarriamo per bene e ordiniamo a Gitone – ben felice di recitare la
parte dello schiavo – di venire con noi alle terme.
27 Nel frattempo, senza stare a spogliarci, ci mettiamo a gironzolare…
anzi a fare battute passando da un gruppo all’altro, quando all’improvviso
vediamo un vecchio crapa pelata con addosso una tunica rosso fuoco,
impegnato a giocare a palla in mezzo a dei giovani con i capelli lunghi.
Ciò che colpì la nostra attenzione non erano tanto i ragazzi (anche se ne
valeva la pena), quanto piuttosto il loro padrone che, con le pantofole ai
piedi, si stava allenando con una palla color verde pisello. Il bello è
che non raccattava mica quelle che cadevano a terra, ma c’era lì un servo
pronto con una sacca piena di palle di riserva da distribuire ai
giocatori. Notammo anche delle altre bizzarrie: impalati alle estremità
opposte del cerchio c’erano i due eunuchi, il primo con in mano un pitale
d’argento, il secondo intento a conteggiare non tanto le palle che
passavano di mano in mano nel corso del gioco, quanto quelle che cadevano
a terra. Mentre noi siamo lì a guardare a bocca aperta quelle finezze,
arriva di corsa Menelao che dice: «Ecco da chi andate a mangiare stasera,
anche se quel che avete visto è soltanto l’inizio». Menelao aveva appena
finito di parlare, che Trimalcione schiocca le dita e a quel segnale
l’eunuco porge il pitale al giocatore. E quello, dopo aver scaricato la
vescica, si fa portare dell’acqua per le mani, la sfiora appena con le
dita e quindi se le asciuga coi capelli di uno dei ragazzi.
28 Impossibile notare tutta quella sfilza di particolari. Così entriamo
nel bagno e, una volta madidi di sudore, in un lampo ci ficchiamo sotto la
doccia fredda. Intanto Trimalcione, pieno di creme, si stava asciugando
non con le solite salviette, ma con asciugamani di lana finissima. Nel
contempo tre massaggiatori gli trincano bottiglie di Falerno davanti agli
occhi, ma siccome litigando tra loro ne versano un bel po’ per terra,
Trimalcione dice che è tutto alla sua salute. Poi, bardato in una veste
scarlatta, viene issato su una portantina preceduta da quattro lacchè in
livrea e da una specie di carrozzina a mano nella quale c’era il suo
tesoro, un bambino con la faccia da vecchietto, tutto cisposo e più brutto
ancora del suo padrone. Mentre lo trasportano in questo modo, gli si
avvicina un musicista con un flauto minuscolo in mano, che per tutto il
tragitto gli fa da colonna sonora, come se gli sussurrasse qualcosa alle
orecchie.
Dietro veniamo noi, già un po’ seccati da tutte quelle sorprese, e, sempre
insieme ad Agamennone, arriviamo alla porta di casa, sul cui stipite era
inchiodato un cartello con su scritte queste parole: «Qualsiasi servo esca
di casa senza il permesso del padrone, riceverà cento frustate». Sempre lì
sull’ingresso c’era un portiere in uniforme verdognola con in vita tanto
di cintura color ciliegia e intento a sbucciare piselli su un vassoio
d’argento. Sulla soglia penzolava una gabbia d’oro con dentro una gazza
screziata che dava il benvenuto alla gente in arrivo.
29 E mentre io me ne sto lì impalato a guardare tutte quelle cose, faccio
un salto indietro che per poco non mi spacco una gamba. Infatti, a
sinistra per chi entrava, a pochi passi dalla guardiola del portinaio,
vedo dipinto sul muro un cane gigantesco tenuto però alla catena e con
sopra scritto a lettere cubitali: «Attenti al cane». I miei soci scoppiano
a ridere. Ma io, dopo essermi ripreso dallo spavento, mi rimetto a
studiare la parete esaminandola per intero. C’era dipinto un mercato di
schiavi con tanto di cartellino al collo e Trimalcione in persona che, con
capelli fluenti e in mano il caduceo, faceva ingresso a Roma scortato da
Minerva. Di seguito il pittore compiacente lo aveva accuratamente
effigiato con tanto di cartigli nell’atto di imparare a far di conto e poi
nel giorno in cui era stato nominato tesoriere. In fondo al portico,
Mercurio lo issava verso un altissimo trono prendendolo per il mento. Al
suo fianco c’era la Fortuna con il corno dell’abbondanza e le tre Parche
impegnate a filare con conocchie d’oro. Nel portico vedo anche una squadra
di atleti intenti ad allenarsi nella corsa sotto la guida di un
preparatore. In un angolo noto poi un grosso armadio, dentro cui, in una
nicchia, c’erano dei Lari d’argento, una statua di Venere in marmo e un
calice d’oro di proporzioni ragguardevoli, nel quale si vociferava fossero
conservati i peli della prima barba di Trimalcione.
A quel punto attacco a chiedere al maggiordomo che cosa rappresentino le
pitture visibili al centro. «L’Iliade e l’Odissea» risponde lui, «e
l’incontro tra i gladiatori di Lenate».
30 Ma non era davvero possibile star lì a osservare tutta quella roba
Eravamo ormai in prossimità della sala da pranzo, dove un sovrintendente
stava facendo dei conti. Ma a colpirmi fu soprattutto un particolare:
sugli stipiti della sala erano inchiodati dei fasci con tanto di scuri,
che sulla punta terminavano in una specie di rostro di nave in bronzo, su
cui era incisa la frase: «A G. Pompeo Trimalcione, seviro Augustale, il
tesoriere Cinnamo». Al di sotto di quella scritta c’era una lampada a due
becchi appesa al soffitto e, ai lati, fissate ai battenti, due tavole, in
una delle quali, se non ricordo male, si leggeva: «Il 30 e il 31 di
dicembre il nostro Gaio cena fuori». Sull’altra erano invece dipinti il
corso della luna nel cielo e le immagini di sette pianeti, mentre una
borchia distingueva i giorni fortunati da quelli disgraziati.
Imbottiti come siamo da queste meraviglie, non appena cerchiamo di entrare
nella sala da pranzo, ecco che uno schiavetto, che era lì proprio per
questo, esclama: «Col piede destro!». Sinceramente siamo un po’
preoccupati all’idea che qualcuno di noi varchi la soglia senza rispettare
quell’indicazione. Poi, mentre alziamo tutti insieme all’unisono il piede
destro, uno schiavo completamente nudo si viene a buttare ai nostri piedi
e attacca a supplicarci di fargli togliere il castigo che gli era stato
inflitto per una colpa in effetti non troppo grave (alle terme gli avevano
rubato i vestiti del tesoriere che valevano a malapena sei sesterzi) e per
la quale adesso rischiava grosso. Allora noi tiriamo indietro il piede
destro, e supplichiamo il tesoriere impegnato a contare monete d’oro
nell’atrio di perdonare quello schiavo. Ma il tipo ci guarda con faccia
piena di boria e fa: «Non è tanto il danno subito a darmi fastidio, quanto
piuttosto la negligenza di questo buono a nulla di un servo. Ha perso un
completino da sera che mi era stato regalato da un cliente per il mio
compleanno. E anche se l’avevo già fatto lavare una volta, era pur sempre
della roba di Tiro. Ma insomma, che cosa volete? Ma sì, prendetevelo
pure».
31 Toccati da un gesto di tale generosità, stavamo entrando in sala da
pranzo, quando ci si para davanti quello stesso servo per il quale eravamo
intervenuti e, con noi che lo guardiamo allibiti, ci sommerge
letteralmente di baci per ringraziarci del nostro buon cuore e aggiunge:
«Presto saprete chi avete aiutato: sono io che ho l’incarico di versare il
vino del padrone».
Finalmente ci sediamo a tavola, mentre degli schiavi alessandrini ci
versano sulle mani dell’acqua ghiacciata, subito rimpiazzati da altri che,
inginocchiati ai nostri piedi, cominciano a tagliarci le pellicine delle
unghie con una precisione incredibile. E mentre erano impegnati in questo
ingrato servizio non stavano mica a bocca chiusa, ma accompagnavano il
tutto cantando. Siccome volevo capire se tutta la servitù avesse quella
caratteristica, chiedo che mi portino da bere. In men che non si dica uno
schiavetto mi serve emettendo un gorgheggio non meno stridulo, e così
tutti gli altri se solo si ordinava qualcosa. Al punto che più che a
pranzo in casa di un padre di famiglia, sembrava di essere in mezzo a una
compagnia di mimi.
Nel frattempo ci viene servito un antipasto mica male: tutti avevano
infatti già preso posto, salvo il solo Trimalcione cui, in virtù di
un’usanza del tutto nuova, era stato riservato quello d’onore. Al centro
del piatto di portata troneggiava un asinello in bronzo di Corinto, con
sopra un basto che da una parte era pieno di olive nere e dall’altra di
chiare. Sulla groppa dell’animale c’erano due piatti sui cui orli era
stato inciso il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. In aggiunta
c’erano poi dei ponticelli saldati insieme che sorreggevano dei ghiri
conditi con miele e salsa di papavero. E ancora c’erano delle salsicce che
friggevano sopra una graticola d’argento e, sotto la graticola, prugne di
Siria con chicchi di melagrana.
32 Eravamo nel pieno di quelle delizie, quand’ecco che Trimalcione in
persona fa il suo ingresso trasportato a suon di musica, sdraiato su
soffici cuscini, e noi scoppiamo a ridere perché la cosa ci coglie alla
sprovvista. Gli spuntava la crapa pelata da sotto un mantello rosso fuoco
e intorno al collo già imbacuccato per bene si era avvolto un foulard
orlato di porpora con frange svolazzanti da una parte e dall’altra. Al
mignolo della mano sinistra portava un enorme anello dorato, mentre
nell’ultima falange dell’anulare ne aveva uno più piccolo che secondo me
era tutto d’oro ma con saldate sopra delle scaglie di ferro fatte a forma
di stella. E per non limitarsi a sfoggiare soltanto quei preziosi, si
scopre il bicipite destro su cui facevano un gran figurone un bracciale
d’oro e un cerchietto d’avorio chiuso da una lamina piena di luce.
33 Dopo essersi dato una ripassata tra i denti con uno stuzzicadenti
d’argento, dice: «Amici, ad essere sincero non mi andava ancora di venire
a tavola, ma per non farvi cominciare il pranzo in ritardo per la mia
assenza, ho preferito sacrificare i comodi miei. Ciò nonostante
permettetemi di finire la partita». Infatti gli veniva dietro un ragazzino
con in mano una scacchiera di radica e dei dadi di cristallo, e io notai
un particolare che era il colmo della raffinatezza: al posto delle pedine
bianche e nere aveva infatti delle monete d’oro e d’argento. E mentre lui
continuava a giocare bestemmiando come un perfetto portuale, e noi eravamo
ancora all’antipasto, viene portato un vassoio con sopra un cestino
contenente una gallina di legno che aveva le ali aperte a cerchio, come di
solito fanno quando covano le uova. Subito si avvicinano due servi che,
sul sottofondo assordante della musica, cominciano a frugare in mezzo alla
paglia e tirano fuori una serie di uova di pavone che distribuiscono tra i
commensali. Di fronte al colpo di scena, Trimalcione si volta e ci
comunica: «Amici, ho fatto mettere sotto la gallina delle uova di pavone
ma, per dio, mi sa che ci sia già dentro il pulcino. In ogni modo vediamo
un po’ se si possono ancora inghiottire». Noi allora prendiamo dei
cucchiaini che non pesavano meno di mezza libbra e rompiamo quelle uova
ricoperte con un impasto di farina. Io stavo quasi per buttar via il mio
perché mi sembrava che dentro ci fosse già il pulcino. Ma poi, quando
sento un habitué di quelle serate dire “mi sa che qui dentro c’è qualcosa
di buono”, frugo un po’ con la mano dentro al guscio e ci trovo un
beccaccino da favola immerso in salsa piccante di tuorlo.
34 Nel frattempo Trimalcione aveva finito la partita e si era fatto
servire ogni cosa, invitando a gran voce chi di noi avesse voluto prendere
ancora del vino al miele, quando all’improvviso ricomincia la musica a un
preciso segnale e una squadra di servi porta via gli antipasti cantando in
coro. Ma nel mezzo di quel caos, caso vuole che cada un piatto d’argento e
che subito uno schiavetto lo raccatti: Trimalcione se ne accorge e ordina
di schiaffeggiare il ragazzino e di ributtare a terra il piatto che
finisce scopato via insieme a tutto il resto da un guardarobiere comparso
immediatamente. Poi entrano in sala due capelloni etiopi con in mano dei
piccoli otri uguali a quelli che usano allo stadio per spargere la sabbia,
e ci versano del vino sulle mani. Di acqua infatti nemmeno a parlarne.
Siccome facciamo un sacco di complimenti al padrone di casa per tutto quel
lusso, lui dice: «A Marte piace il giusto. Per questo ho ordinato che a
ciascuno venisse assegnato un tavolo personale. Ma anche perché questi
schiavi puzzolenti ci soffino meno sul collo andando su e giù per la
stanza».
Un attimo dopo arrivano delle anfore di cristallo scrupolosamente
sigillate e con delle etichette incollate al collo con su scritto:
«Falerno Opimiano di cent’anni». Mentre eravamo impegnati a leggere,
Trimalcione batte le mani urlando: «Oddio, dunque il vino vive più a lungo
di un pover’uomo. Ma allora scoliamocelo d’un fiato! Il vino è vita e
questo è Opimiano puro. Ieri non ne ho offerto di così buono, eppure avevo
a cena gente ben più di riguardo». Mentre noi tracanniamo e osserviamo con
gli occhi sgranati tutto quel ben di dio, arriva un servo con uno
scheletro d’argento costruito in maniera tale che lo snodo delle vertebre
e delle giunture permetteva qualunque tipo di movimento. Dopo averlo
buttato a più riprese sul tavolo facendogli assumere varie posizioni
grazie alla struttura mobile, Trimalcione aggiunge:
«Ahimè, miseri noi, che cosa da nulla è un pover’uomo.
Noi tutti saremo così il giorno che l’Orco ci prende.
Ma allora viviamo, finché godere possiamo».
35 A questo elogio funebre segue una portata inferiore all’attesa, ma
capace di far spalancare gli occhi a tutti per la sua assoluta
originalità. Era infatti una grossa teglia rotonda che aveva tutto intorno
i segni dello zodiaco, sopra ciascuno dei quali il cuoco aveva piazzato
una specialità appropriata al simbolo: sull’Ariete dei ceci di Arezzo; sul
Toro un quarto di bue; sui Gemelli testicoli e rognoni; sul Cancro una
corona; sul Leone fichi africani; sulla Vergine una vagina di scrofa;
sulla Libra una bilancia con una focaccia in un piatto e un polpettone
nell’altro; sullo Scorpione un pesciolino di mare; sul Sagittario un gufo;
sul Capricorno un’aragosta; sull’Acquario un’oca; sui Pesci due triglie.
Al centro, poi, una zolla di terra strappata con tutta l’erba attaccata
sosteneva un favo di miele. Uno schiavetto egiziano distribuiva pane caldo
in giro prendendolo da un forno portatile d’argento.
… e anche lui con una voce d’inferno attacca una tirata dal mimo Il
venditore di silfio. Ma quando Trimalcione si accorge che quei cibi tanto
ordinari non li abbiamo accolti con troppo slancio, dice: «Abbiate fiducia
e pensiamo a mangiare: il meglio della cena è proprio questo».
36 Dopo la battuta di Trimalcione, quattro servi entrano ballando al ritmo
di un’orchestra e scoperchiano il vassoio. E cosa ti vediamo dentro?
Capponi, mammelle di scrofa e, al centro, una lepre con tanto di ali che
sembrava un Pegaso. Agli angoli del vassoio notiamo anche quattro
statuette di Marsia, che da piccoli otri innaffiavano di salsa piccante
dei pesci che ci sguazzavano dentro come in un braccio di mare.
Applaudiamo tutti unendoci ai servi e, nell’allegria generale, ci buttiamo
su quel ben di dio. E Trimalcione, come noi al settimo cielo per quella
nuova portata, urla: «Trincia!». Subito arriva un trinciatore che,
muovendosi lui pure al ritmo dell’orchestra, taglia la carne così bene che
lo avresti detto un essedario impegnato a combattere sul carro al suono
dell’organo. Trimalcione, intanto, continuava a ripetere «Trincia!
Trincia!» con la sua voce strascicata. E io, sospettando che quella parola
ripetuta tante volte contenesse un qualche sottosenso spiritoso, non
esitai a chiederlo al commensale seduto al mio fianco. Ma quello, che di
sicuro aveva assistito già altre volte a pantomime del genere, mi spiega:
«Lo vedi il servo che taglia le pietanze? Ebbene si chiama Trincia. Così,
ogni volta che Trimalcione dice “Trincia”, con una parola sola lo chiama e
gli dà un ordine».
37 Io non riuscivo più a buttare giù nulla ma, rivolgendomi a lui per
saperne di più, la presi alla larga e gli chiese chi fosse quella donna
che continuava ad andare avanti e indietro. «Ma è la moglie di
Trimalcione» specifica lui, «si chiama Fortunata e i soldi li conta a
palate. E lo sai cos’era fino all’altro ieri? Lasciamelo dire: era una che
da lei non avresti accettato nemmeno un tozzo di pane. Adesso, non
chiedermi come né perché, ha toccato il cielo con il dito ed è il braccio
destro di Trimalcione. Al punto che se a mezzogiorno spaccato lei gli dice
che è notte, lui ci crede anche. Lui stesso non lo sa mica quanto ha,
tanto è ricco sfondato. Ma quella figlia di troia ne sa una più del
diavolo e non le sfugge niente. Mangia poco, non beve, e ha la testa sul
collo: tutto oro quel che vedi. Però ha una lingua, una vera cornacchia!
Chi ama ama, chi non ama non ama. Lui, Trimalcione, ha tante terre che per
vederle ci vorrebbero le ali di un nibbio e fa soldi su soldi. Nella
guardiola del suo portiere c’è più oro di quanto altri ne hanno in un
patrimonio intiero. Circa la servitù, lasciamo perdere: ad aver visto in
faccia il padrone, porcaccia la miseria, ce ne sarà sì e no uno su dieci.
Sta di fatto che questi scrocconi lui se li rivolta come vuole.
38 E non ti credere che compri qualcosa. Gli cresce tutto in casa: lana,
cedri, pepe. E se gli chiedi latte di gallina, lui te lo trova. Per
fartela breve, visto che la lana di sua produzione non era un granché, ha
acquistato a Taranto dei montoni fuoriclasse e li ha messi a montare il
gregge. Un’altra volta, per avere miele dell’Attica in casa, ha ordinato
che gli portassero le api dall’Attica, in modo che le api nostrane
migliorassero un po’ stando insieme alle greche. Addirittura in questi
giorni ha scritto in India che gli spediscano il seme dei funghi. Non ha
una sola mula che non sia figlia di un onagro. Guarda quanti cuscini:
ebbene, sono tutti imbottiti con porpora o scarlatto. Questa sì che è
fortuna! Gli altri suoi compagni di schiavitù di un tempo, occhio a non
prenderli sotto gamba. Si son fatti i soldi anche loro. Lo vedi quello che
è sdraiato per ultimo nell’ultima fila? Bene, oggi avrà almeno
ottocentomila sesterzi ed è venuto su dal nulla. Figurati che fino a ieri
portava la legna sulle spalle. Io non lo so per certo, l’ho solo sentito,
ma gira voce che abbia rubato il berretto a Incubo e ci abbia trovato
dentro un tesoro. Io però non lo invidio mica uno che dio gli ha fatto un
regalo. Lui però puzza ancora di schiavo e se la tira da gran signore. E
non è mica tanto che ha fatto appendere fuori questo avviso: “Dal 1°
luglio G. Pompeo Diogene affitta questo solaio perché si è fatto
l’appartamento”. E quell’altro che adesso è là seduto al posto dei
liberti? Lui sì che se la passava bene! Non che ce l’abbia con lui. Era
arrivato a toccare il milione, e poi zac è crollato. Quello non ha più
manco i capelli senza ipoteche! E perdio, non è mica colpa sua. Credimi,
non c’è persona migliore di lui. Chi gli ha fregato tutto sono stati dei
liberti avanzi di galera. Ricordatelo bene: la pentola in comune non c’è
mai dentro niente di buono, e quando va male, gli amici ti saluto e sono.
Adesso lo vedi ridotto in quel modo, ma sapessi che bel lavoro faceva!
Impresario di pompe funebri, era. A tavola era roba da re: cinghiali
impanati, timballi al forno, uccelli, cuochi, fornai. A tavola scorreva
più vino di quanto se ne può avere in cantina. Un sogno fatto uomo. Ma
quando ha iniziato a girargli storta, per evitare che i creditori lo
pensassero con l’acqua alla gola, ha organizzato una vendita all’incanto
con questo slogan: “G. Giulio Proculo mette all’asta quello che non gli
serve”».
39 Quando ormai ci avevano già portato via i piatti e i commensali
cominciavano a straparlare dandoci dentro della grossa col vino,
Trimalcione, appoggiato sul gomito, interrompe questo ameno monologo
dicendo: «A un vino così bisogna fargli onore. I pesci bisogna che
nuotino. Ma ditemi un po’, non crederete mica che stasera mi accontenti di
quello che avete visto su quella teglia?
“Conoscete così poco Ulisse?”.
E allora? Anche seduti a tavola, un po’ di cultura non fa mica male. Con
buona pace di quella buon’anima del mio padrone, che mi ha voluto uomo fra
gli uomini. A me non c’è niente che mi prenda alla sprovvista, e quel
piattino di prima ve ne ha dato la prova. Questo cielo che vedete ci
abitano dentro dodici dèi che a loro volta si trasformano in altrettanti
simboli e adesso diventa l’Ariete. Chi nasce sotto quel segno, avrà molte
pecore, molta lana, la faccia di bronzo, la testa dura e il corno sempre
sull’attenti. Sotto questo segno nascono molti letterati e rompipalle».
Noi facciamo un sacco di complimenti a quella battuta da astrologo, e lui
riattacca dicendo: «Poi tutto il cielo diventa Toro. Ed è in questa
congiuntura che nascono gli scontrosi, i burini e quelli che bastano a se
stessi. Sotto i Gemelli vengono fuori le bighe, i buoi, i coglioni e
quelli che tengono il piede dentro due scarpe. Sotto il Cancro ci sono
nato io. Per questo sono ben piantato su molti piedi e ho un sacco di
possedimenti in terra e in mare. E infatti il granchio sta bene sia lì che
qui, ed è per questo che non ci ho fatto mettere sopra nulla, perché
niente coprisse il mio segno. Sotto il Leone nascono poi i crapuloni e i
prepotenti; sotto la Vergine le femminucce, gli schiavi che se la svignano
e quelli che finiscono ai ceppi; sotto la Bilancia i macellai, i
profumieri e tutti quelli che vendono merci a peso; sotto lo Scorpione gli
avvelenatori e gli assassini; sotto il Sagittario gli strabici che
adocchiano la verdura e si fottono il lardo; sotto il Capricorno i
disgraziati che si ritrovano le corna sulla testa per colpa dei loro mali;
sotto l’Acquario gli osti e le teste di rapa; sotto i Pesci gli chef e i
retori. Così gira il mondo come una ruota, e sono sempre guai, sia che gli
uomini nascano sia che muoiano. Ecco perché al centro vedete quella zolla
con sopra il favo: non faccio mai nulla senza buoni motivi. Nel mezzo c’è
la madre terra rotonda come un uovo, e racchiude dentro di sé ogni bene
come un favo».
40 «Bravissimo!» gridiamo in coro, e con le mani tese verso il soffitto
giuriamo che uomini come Ipparco e Arato non sono degni manco di
allacciargli le scarpe, quand’ecco entrano dei servi e sistemano sui
triclini dei copriletti che avevano ricamate sopra le reti e cacciatori
appostati con in mano gli spiedi e tutti gli arnesi per la caccia. Non
sapevamo ancora cosa dovessimo immaginare, quando da fuori della sala si
leva un grande baccano, ed ecco che dei cani della Laconia entrano e si
mettono a correre all’impazzata intorno alla tavola. A ruota arriva una
grossa teglia sulla quale giganteggia un enorme cinghiale con in testa un
berretto da liberto: alle sue zanne sono appesi due piccoli cestini di
palma intrecciata, pieni uno di datteri freschi e l’altro di secchi. Tutto
intorno c’erano dei maialini di pasta di mandorle che, essendo attaccati
più o meno alle mammelle, facevano capire che si trattava di una femmina.
Ce li regalano, da portarli poi via a fine cena. A tagliare il cinghiale
non si presenta quel Trincia che aveva fatto le parti coi polli, ma un
energumeno barbuto con le gambe fasciate e un mantello damascato sulle
spalle. Impugnato un coltello da caccia, il tipo cala un colpo tremendo
nel fianco del cinghiale e dallo squarcio ne esce uno stormo di tordi in
volo. Ma lì c’erano già pronti gli uccellatori con tanto di canne, e in un
battibaleno li riacciuffano mentre quelli svolazzano per la sala. Dopo
aver ordinato di darne uno a ogni invitato, aggiunge: «Guardate un po’ che
ghiande prelibate si pappava quel porco selvatico!». Due schiavetti
afferrano i cestini che pendevano dalle zanne del cinghiale e
distribuiscono agli invitati i datteri freschi e quelli secchi.
|[continua]|

|[SATIRICON, 2]|
41 Nel frattempo, appartato com’ero nel mio cantuccio, io mi spremevo le
meningi per capire perché mai quel cinghiale avesse in testa il berretto
dei liberti. Dopo aver fatto le supposizioni più assurde, mi decido a
interpellare di nuovo il mio vicino chiedendogli lumi sul problema che mi
assilla. E lui mi fa: «Anche il tuo servo te lo può spiegare benissimo:
non è mica un mistero, lo sanno tutti. Visto che gli invitati di ieri sera
hanno rimandato indietro questo cinghiale perché scoppiavano di cibo, per
questo oggi ritorna a tavola acconciato da liberto». Me la prendo con la
mia stupidità e non gli domando più nulla per non dar l’impressione di
essere uno che a tavola con gente per bene non c’è mai stato.
Mentre parliamo di queste cose, uno schiavetto bellissimo con i capelli
pieni di foglie di vite e di edera e che dice di essere un po’ Bromio, un
po’ Lieo ed Evio, distribuisce grappoli d’uva prendendoli da un cestino e
propina versi del padrone con una voce da rompere i timpani. E
Trimalcione, voltandosi in direzione di quel suono, dice: «Dioniso, sii
libero». Lo schiavetto toglie il cappello al cinghiale e se lo mette in
testa. Trimalcione allora insiste: «Ora non potrete più negare che ho il
padre Libero». Applaudiamo la battuta di Trimalcione e copriamo
letteralmente di baci il ragazzino impegnato nel suo secondo giro.
Dopo questa portata Trimalcione si alza per andare al cesso. E noi, non
sentendoci più in soggezione per la sua ingombrante presenza, ci mettiamo
a discutere delle cose di cui si parla a tavola. Dama, dopo essersi
scolato un bel boccale di vino, rompe il ghiaccio dicendo: «Il giorno dura
un istante. Non fai a tempo a voltarti, che è subito notte. Perciò non c’è
niente di meglio che passare dal letto alla tavola. E poi abbiamo avuto un
freddo del boia, che quasi non bastava il bagno per scaldarmi le ossa.
Credetemi, una bella bibita calda è meglio di una coperta. Ne ho tirate
giù un bel po’ e adesso sono giù ubriaco fradicio. Il vino mi ha dato alla
testa».
42 Alla conversazione prende parte anche Seleuco dicendo: «Io non mi lavo
mica tutti i giorni, perché il bagno è una cosa da lavandaie: l’acqua ha i
denti e ogni giorno ti scola via un pezzo di cuore. Ma basta che mi faccia
un bel bicchiere di vino al miele e al freddo gli dico di fottersi. E poi
oggi il bagno non l’ho potuto fare perché sono andato a un funerale. Quel
povero diavolo di Crisanto, un vero gentiluomo, se n’è andato e mi aveva
fatto chiamare un attimo prima. Mi sembra ancora di averlo qui davanti che
parliamo. Mah! Siamo otri gonfiati che camminano. Siamo meno delle mosche,
che almeno un po’ di vitalità ce l’hanno, mentre noi non siamo altro che
bolle. E se non avesse fatto la dieta terribile che sappiamo? È andato
avanti cinque giorni senza inghiottire una goccia d’acqua o una briciola
di pane. Eppure è finito nel mondo dei più. La sua morte ce l’hanno sulla
coscienza i medici, o piuttosto un destino stramaledetto. A cosa servono
poi i medici se non a tirare su il morale? Però gli hanno fatto un
funerale coi fiocchi, disteso sul suo letto pieno di addobbi di lusso. In
più l’hanno pianto di cuore per tutti quegli schiavi che aveva affrancato,
mentre la sola che fingesse di essere straziata era la moglie. E che
diamine avrebbe fatto, se lui non l’avesse sempre trattata come una
regina? Le donne, che sanguisughe, le donne! Non si dovrebbe mai fargli
del bene, perché è come buttarlo in un pozzo. L’amore col tempo è come
averci il cancro».
43 Il tipo cominciava a seccare, tanto che Filerote salta su e dice: «E i
vivi dove li mettiamo? Quel tale ha avuto ciò che si meritava: ha vissuto
bene e bene è morto. Che ha da lagnarsi? È venuto su dal nulla ed era
pronto a raccattare coi denti una moneta nel pieno della merda. E così è
cresciuto come è cresciuto, che sembrava un favo. E santiddio mi sa che ha
lasciato centomila sesterzi tranquilli, e tutti sull’unghia. Eppure,
volete sapere come stanno davvero le cose? Ve lo dico io che non ho peli
sulla lingua: era un cafone, una mala lingua, un rissoso di natura, mica
un uomo. Suo fratello, lui sì che c’aveva le palle, un vero amico con gli
amici, generoso e con la tavola sempre imbandita. All’inizio non gli andò
per il verso giusto, poi si rimise in sesto con la prima vendemmia, perché
riuscì a vendere il vino a quanto voleva lui. Ma quello che lo rimise del
tutto in carreggiata fu un’eredità dalla quale sgraffignò più di quanto
gli toccasse. Ma da deficiente qual era andò poi a litigare col fratello,
lasciando tutta la sua fortuna a non so quale figlio di nessuno. Chi
pianta in asso la sua gente finisce a rotoli. Aveva dei servi che
considerava oracoli, e quelli lo aiutarono a finire sul lastrico. Chi fa
in fretta a fidarsi del prossimo, finisce che non combina niente di buono,
specie se è nel ramo degli affari. Ma una cosa è certa: finché visse, se
la spassò alla grande… chi ha avuto, e non chi avrebbe dovuto avere. Era
davvero nato con la camicia. In mano sua il piombo diventava oro (che poi
è uno scherzo, se tutto gira alla perfezione). E quanti anni credete che
avesse? Settanta e rotti. Ma era fatto di ferro, e se li portava bene gli
anni, nero come un corvo. Io lo conoscevo dalla notte dei tempi, ma era
ancora attivo sessualmente. E mi sa che in casa sua non risparmiasse
nemmeno la cagna. E andava anche coi ragazzini, non si tirava mai
indietro. Non gli do mica torto: in fondo questa è la sola cosa che si sia
portato dietro con sé».
44 Dopo la tirata di Filerote, interviene Ganimede: «Questa è roba che non
sta né in cielo né in terra, e nel mentre nessuno ci pensa ai morsi della
carestia. Oggi, maledetta miseria, non sono riuscito a trovare un tozzo di
pane. E la siccità non vuole mica finirla! E intanto è da un anno che c’è
la fame. Gli venisse un colpo agli edili, che fanno le combines coi
fornai: “Aiuta me che aiuto te” dicono, mentre la povera gente tira la
cinghia e per quelle canaglie è sempre carnevale. Ah, se ci fossero ancora
quei duri che ho trovato qui la prima volta che son venuto dall’Asia!
Quello sì che era vivere. Se il grano della Sicilia non valeva un fico
secco, a ‘sti pezzi di galera quelli là gliene davano un sacco e una
sporta, che sembrava venisse giù il cielo. Me ne ricordo uno, Safinio:
quand’ero ancora un ragazzino, lui stava dalle parti dell’Arco Vecchio.
Era un demonio, non un uomo. Dove passava lui, faceva terra bruciata. Ma
era onesto, leale, amico con gli amici, potevi giocarci alla morra anche
al buio. E in Senato poi, come se li rigirava tutti, dal primo all’ultimo,
e come parlava chiaro, senza fare tanti giri di parole. Nel foro, poi,
quando aveva la parola lui, era come sentire una tromba. E mai una goccia
di sudore o uno sputo: aveva un non so che di asiatico. E con che
gentilezza ti salutava, ricordandosi il nome di tutti, come se fosse uno
di noi! Così a quei tempi la roba costava una miseria. Comprando un soldo
di pane, non si riusciva mica a finirlo in due. Adesso ti danno dei panini
che un occhio di bue è più grosso! Poveri noi, ogni giorno che passa è
sempre peggio. Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un
vitello. Ma come volete che vada se abbiamo un edile che non vale un fico
secco, e che darebbe la nostra vita in cambio di una lira? A casa sua se
la spassa, e guadagna più lui in un giorno che il resto della gente in
tutta la vita. Io lo so benissimo come ha fatto ad arraffare mille denari
d’oro. Se solo noi avessimo le palle, quello lì non se la spasserebbe
tanto. Il fatto è che a casa siamo tutti leoni, mentre fuori diventiamo
pecore. Per quel che mi riguarda, ho già venduto gli stracci che avevo e,
se continua la carestia, finisce che mi dò via anche la baracca. Come
volete che vada a finire, se gli dèi e gli uomini continuano a fregarsene
di questo paese? Mi scommetterei i figli che tutto questo ce lo mandano
gli dèi. Nessuno più crede che il cielo sia il cielo, nessuno più rispetta
il digiuno, tutti se ne infischiano del padreterno, e sanno solo sgranare
gli occhi per contare la roba che hanno. Una volta le signore bene
salivano scalze in Campidoglio, coi capelli sciolti e il cuore puro, e
imploravano Giove che facesse piovere. Subito veniva giù a catinelle. Ora
o mai, e tutti ridevano, fradici come sorci. Oggi invece gli dèi sono
imbestialiti perché non c’è più religione. E intanto i campi se ne vanno
in malora…».
45 «Ma per piacere» lo interrompe Echione, il rigattiere, «non hai niente
di più allegro da raccontarci? “Un po’ su e un po’ giù”, disse il
contadino, dopo aver perso il maiale pezzato. Quello che non è oggi, sarà
domani. Così va la vita. Se solo ci fossero degli uomini con gli
attributi, santiddìo, questo sì che sarebbe il migliore dei paesi! Ma
adesso è piena crisi, e mica solo qui da noi. Non dobbiamo fare tanto i
difficili: tutto il mondo è paese. Se tu abitassi da un’altra parte,
diresti che qui dalle nostre parti i maiali vanno in giro per le strade
già belli e cotti. E poi abbiamo la prospettiva di goderci tre giorni di
magnifico spettacolo: al posto dei gladiatori di professione un bel
grappolo di liberti. Il nostro Tito ha un cuore grosso così ed è pieno di
iniziative. Comunque, o questo o quello, alla fin fine qualcosa succederà.
Non è tipo da fare le cose a metà, credete a me che con lui sono culo e
camicia. Farà gareggiare i più grossi campioni in duelli all’ultimo
sangue, col gran massacro finale al centro, che possano vedere tutti gli
spettatori. I mezzi per farlo ce li ha. Quando suo padre buonanima è
morto, lui si è beccato trenta milioni di sesterzi. Se anche ne spende
quattrocentomila, il suo gruzzolo certo non ne risente, e lui verrà
ricordato in eterno. Ha già per le mani qualche bel pezzo di galera, più
una tizia che combatte sul carro e il tesoriere di Glicone, quello che
l’hanno beccato mentre se la faceva con la padrona. E in mezzo al pubblico
vedrai che risse tra i mariti gelosi e i seduttori di professione. E quel
pezzente di Glicone, che ha fatto buttare il tesoriere tra le belve?
Questo sì che è svergognarsi agli occhi di tutti! Che colpa aveva il
servo, se era la padrona che lo costringeva a farlo? Lei piuttosto, quella
troiona, meriterebbe che se la sbattesse un toro. Ma è proprio vero che
chi non può bastonare l’asino, se la prende col basto. E poi Glicone che
cosa si credeva, che dalla gramigna di Ermogene venisse fuori qualcosa di
buono? Avrebbe anche potuto tagliare le unghie a un nibbio in volo, tanto
da un serpente non nasce mica una corda. E Glicone, Glicone ha avuto
quello che si meritava: le corna se le porta dietro finché campa, e non
gliele toglie nemmeno il diavolo in persona. Chi rompe paga, e i cocci son
tutti suoi. Io sento già il profumo del banchetto che ci offrirà Mammea, e
le due monete d’oro che ci scapperanno per me e per i miei. Se lo farà
davvero, porterà via a Norbano tutto il favore della gente. Puoi
scommetterci che per lui sarà un trionfo. Ma, a conti fatti, da quello lì
che cosa ci abbiamo ricavato? Ha fatto gareggiare dei gladiatori da due
lire, con un piede nella bara, che li sbattevi a terra con un soffio. In
passato ho visto dei condannati che di fronte alle bestie erano molto
meglio di loro. Ha fatto ammazzare dei cavalieri da lampade, che
sembravano dei galli da pollaio. Uno era da caricarlo sul mulo, l’altro
aveva i piedi piatti e il terzo, che doveva sostituire un morto, era già
morto pure lui con i tendini tagliati. L’unico con un po’ di fiato da
spendere era un Trace, ma pure lui combatteva come se fosse in palestra.
Alla fine li dovettero frustare, tanto la folla gridava “Dàgli, dàgli!”:
dei veri campioni dell’arte della fuga. “Io comunque uno spettacolo te
l’ho offerto”, dice lui. E io ti rispondo: “Ti ho battuto le mani. Tu
fatti i tuoi bravi conti, e vedrai che ti ho dato più di quello che ho
ricevuto. Una mano lava l’altra”».
46 «Mi sa, Agamennone, che tu stai pensando: “Ma di cosa blatera questo
rompiscatole?”. È perché tu che sai parlare, non parli. Tu appartieni a
un’altra categoria, te la ridi dei discorsi dei poveracci. Lo sappiamo
benissimo che a forza di letteratura ti sei intronato il cervello. E
allora? Bisogna che un giorno riesca a trascinarti in campagna a vedere la
mia casetta. Roba da mangiare ne troveremo: un polletto, due uova e vedrai
che ce la spasseremo, anche se quest’anno il maltempo ci ha fatto un
brutto scherzo. Troveremo il modo di riempirci fino agli occhi. E là c’è
pronto per te un allievo, il mio piccolo tesoro, che sa già dividere per
quattro e se ce la farà a campare sarà un docile schiavetto al tuo fianco.
Appena ha un attimo di tempo, lo passa con la testa sui libri. Sale in
zucca ne ha, la stoffa è buona, solo che ha la mania degli uccelli. Un
giorno gli ho ucciso tre cardellini e poi ho dovuto raccontargli che se li
era pappati una donnola. Allora lui si è cercato degli altri svaghi e
adesso va pazzo per la pittura. Ad ogni modo ha dato un calcio al greco e
si è dato al latino che è un piacere, anche se l’insegnante che ha è uno
pieno di boria e non sta fermo un attimo: arriva, si fa dare da scrivere,
ma voglia di lavorare, figurati. Ce n’è poi un altro che non sarà un pozzo
di scienza ma ce la mette tutta e insegna più di quello che sa. Di solito
ci viene in casa nei giorni di festa e si accontenta di qualunque cifra
gli dai. Adesso ho comprato al ragazzino qualche testo di diritto, perché
voglio che abbia un’infarinatura nelle questioni legali ad uso domestico.
Quella roba lì sì che dà da mangiare. Di letteratura si è già imbottito
abbastanza. Che se poi non ne ha voglia, ho deciso di fargli imparare un
mestiere: il barbiere, il banditore di aste, o di sicuro l’avvocato,
qualcosa insomma che gli serva finché campa. Ed è per questo che ogni
giorno gli ripeto: «Primigenio mio, dài retta a papà, tutto quello che
impari, lo impari per te. Guarda Filerone, l’avvocato: se non avesse
studiato, oggi non metterebbe insieme il pranzo con la cena. Fino
all’altro ieri faceva il facchino, e adesso tiene testa perfino a Norbano.
La cultura è un vero tesoro, e un mestiere non te lo toglie nessuno».
47 Giravano discorsi di questo tipo, quando Trimalcione fa il suo ingresso
in sala. Si asciuga la fronte, si lava le mani con una lozione profumata e
poi dice: «Cari amici, perdonatemi, ma già da un po’ di giorni non vado di
corpo e i medici non ci capiscono nulla. Tuttavia mi hanno fatto
abbastanza bene la scorza di melagrana e l’infuso di resina all’aceto, e
spero che il mio intestino torni a fare il suo dignitoso servizio. Se no
mi ricomincia questo gorgoglio dalle parti dello stomaco che sembro un
toro. Anzi se c’è qualcuno di voi che ha bisogno di andare in bagno, non è
proprio il caso di vergognarsene. Nessuno è venuto al mondo senza buchi. E
io non penso ci sia tortura peggiore che il doversi trattenere. Questa è
l’unica cosa che nemmeno Giove ci può impedire. Ridi, eh Fortunata,
proprio tu che di notte non mi lasci chiudere gli occhi? Ad ogni modo
anche qui in sala da pranzo io non vieto a nessuno di fare i suoi bisogni,
e i medici stessi sconsigliano di trattenersi. Se poi scappa qualcosa di
più grosso, lì fuori c’è pronto tutto quello che serve: acqua, pitali e il
resto degli accessori. Date retta a me, le flatulenze trattenute salgono
al cervello e poi vanno in circolo per tutto il corpo. So che molti ci
hanno rimesso la pelle, a forza di non voler guardare le cose in faccia».
Lo ringraziamo per la sua generosa comprensione, e subito soffochiamo un
attacco di riso bevendo a piccoli sorsi, uno via l’altro. E non sapevamo,
dopo tutta quella roba, di essere – come si dice – appena a metà strada.
Infatti, una volta sparecchiati i tavoli a suon di musica, ecco entrare
tre maiali bianchi provvisti di guinzagli e campanelli, che hanno, stando
a quanto dice il presentatore, uno due anni, l’altro tre mentre il terzo
già sei. Io pensavo che stessero per entrare gli acrobati e che i maiali
si sarebbero esibiti, come succede nei circhi, in numeri straordinari. Ma
Trimalcione, dissipando subito ogni dubbio, dice: «Quale di questi volete
che vi venga immediatamente servito? Un galletto domestico, uno spezzatino
di pollo alla Penteo e robetta di questo tipo la sanno preparare pure i
contadini: i miei cuochi sono capaci di mettere in pentola e cuocere anche
vitelli interi». Manda subito a chiamare un cuoco e, senza aspettare che
fossimo noi a scegliere, gli ordina di scannare il più vecchio,
chiedendogli ad alta voce: «Di che decuria sei?». Quando quello rispose
che era della quarantesima, Trimalcione gli chiese: «Ti ho comprato fuori,
oppure mi sei nato in casa?». «Né l’uno né l’altro» risponde il cuoco: «ti
sono stato lasciato in eredità da Pansa». «Allora vedi di servire bene, se
no ti faccio sbattere tra i lacchè». Messo sull’avviso dall’autorità, il
cuoco si lascia trascinare in cucina dal candidato all’arrosto.
48 Trimalcione si gira verso di noi e, con lo sguardo dolce, dice: «Se il
vino non è di vostro gradimento lo cambiamo. Però bisogna che voi gli
facciate onore. A dio piacendo non lo compro mica, ma tutto quello che
stasera vi state pappando viene da un mio podere che non ho ancora avuto
il tempo di visitare. Mi dicono che è al confine tra Terracina e Taranto.
Adesso voglio attaccare a quella proprietà la Sicilia: così, se solo mi
gira di andare in Africa, lo potrò fare viaggiando nel mio. Ma tu
piuttosto, Agamennone, raccontami un po’, su che problema giuridico hai
discusso oggi? Io, è vero, non faccio il leguleio, eppure un po’ di
cultura alla buona ce l’ho, e non pensare che i libri mi annoino, perché
ho ben tre biblioteche, di cui una in latino e l’altra in greco. Quindi ti
prego, dammi un sunto della tua conferenza». E Agamennone attaccò: «Un
povero e un ricco erano nemici». «E che cos’è un povero?» lo interrompe
Trimalcione. «Bella questa!» commenta Agamennone e prosegue raccontandogli
non so quale controversia. E allora Trimalcione, immediatamente: «Se il
fatto è accaduto, non c’è controversia; se invece non è accaduto, allora
non c’è proprio un bel niente». Visto che questa battuta e altre dello
stesso livello noi le accogliamo con applausi fragorosi, Trimalcione
insiste dicendo: «Tu te le ricordi, caro il mio Agamennone, le dodici
fatiche di Ercole, o quella storia di Ulisse, di come il Ciclope gli portò
via un dito con delle tenaglie fatte a piede di porco? Roba che da bambino
leggevo in Omero. Anzi, io a Cuma l’ho vista di persona la Sibilla sospesa
dentro un’ampolla con i ragazzini intorno che le chiedevano “Sibilla, cosa
vuoi?”, e lei che rispondeva “Voglio morire”».
49 Non aveva ancora finito di sparare tutte le sue idiozie, quando arriva
ad occupare la tavola una teglia con dentro un maiale enorme. Noi restiamo
senza fiato di fronte a una simile velocità di esecuzione e giuriamo che
neppure un galletto domestico si sarebbe potuto cuocere in tempi così
brevi, tanto più che quel maiale ci sembrava molto più grosso che non poco
prima. Ma Trimalcione, guardandolo e riguardandolo, sbotta: «Come? Questo
maiale non è stato sventrato? Per dio, non lo è stato no. Chiamate il
cuoco, lo voglio qui immediatamente». E quando il cuoco arriva con la coda
tra le gambe e ammette di essersene proprio dimenticato, Trimalcione lo
investe: «Cosa? Dimenticato? E lo dici come se avessi scordato di metterci
solo il pepe e il cumino? Spogliatelo». Il cuoco viene immediatamente
denudato e rimane lì avvilito in mezzo a due autentici boia. Allora tutti
attaccano a prendere le sue parti. «Avanti, son cose che succedono»
implorano in coro, «per favore, perdonalo: se lo farà un’altra volta,
nessuno di noi dirà più una parola per lui». Io, che sono anche fin troppo
severo, non riesco a trattenermi, mi chino verso Agamennone e gli sussurro
in un orecchio: «Ma questo servo è davvero un cretino! Chi può
dimenticarsi di sventrare un maiale? Io, com’è vero iddio, non lo
perdonerei nemmeno se avesse scordato di farlo con un pesce». Trimalcione,
invece, con l’aria rilassata e divertita, concede: «E va bene: visto che
hai la memoria tanto corta, allora sventralo qui davanti ai nostri occhi».
E il cuoco, dopo essersi rimesso la tunica, afferra un coltello e, menando
colpi a destra e a sinistra con la mano che gli trema, apre il ventre al
maiale. Ed ecco che dagli squarci che si dilatano per la pressione del
ripieno vengono fuori salsicce e cotechini.
50 Di fronte a questa trovata, tutta la servitù scoppia in un applauso
gridando «Viva Gaio!». Al cuoco tocca anche l’onore di un brindisi, più
una corona d’argento, con il bicchiere del cin cin che gli viene offerto
su un vassoio corinzio. E siccome Agamennone osservava con grande
attenzione il vassoio, Trimalcione precisa: «Sono l’unico ad avere vassoi
di Corinto originali». Io mi aspettavo che si lasciasse andare a una delle
sue solite sbruffonate, dicendo che i vasi se li faceva portare apposta da
Corinto per lui. Invece Trimalcione riesce a fare ancora di meglio. «Forse
vorrai sapere perché mai sono l’unico ad avere dei pezzi corinzi
originali. Perché il ramaio dal quale compro i vasi si chiama Corinto. E
cosa c’è di più Corinzio di quello che produce Corinto? Non pensate che
sia un ignorante della grossa, lo so benissimo anch’io qual è l’origine
del bronzo di Corinto. Dopo la caduta di Troia, quel gran dritto che era
Annibale accatastò in un rogo tutte le statue di bronzo, d’oro e d’argento
e ci appiccò il fuoco, così che tutte si mescolarono in un’unica lega.
Allora i fabbri ferrai pescarono in quella massa informe e ne fecero
bacinelle, vassoi e statuette. Questa è l’origine del bronzo corinzio, che
ha dentro un po’ di tutti i metalli, senza però essere né l’uno né l’altro
in particolare. Personalmente – lasciatemelo dire – preferisco il
cristallo: niente odori e, se solo non si rompesse, mi piacerebbe ancora
più dell’oro. Così invece non vale niente.
51 Eppure un tempo ci fu un artigiano che costruì una bottiglia di vetro
infrangibile. Presentatosi al cospetto di Cesare, gliela regalò. Ma poi,
dopo essersela fatta restituire, la sbatté a terra. Cesare rimase senza
fiato che più non si poteva. Ma il tipo raccattò da terra la bottiglia,
che si era giusto un po’ ammaccata come un vaso di bronzo. Poi tirò fuori
dalla tasca un martelletto e cominciò tranquillo a rimetterla in sesto.
Ormai credeva di tenere Giove per le palle, specie dopo che Cesare gli
chiese: “C’è qualcun altro al corrente di questa tecnica di lavorazione
del vetro?”. Occhio adesso: non appena quello ebbe risposto di no, Cesare
ordinò che gli tagliassero la testa: se infatti quel segreto si fosse
saputo in giro, per noi l’oro sarebbe al livello dello sterco.
52 Personalmente sono un grande appassionato di argenteria. Di boccali
grandi come urne ne avrò su per giù un centinaio… con sopra scolpita la
storia di Cassandra che uccide i figli e tutti quei bambini morti lunghi
distesi, che li diresti vivi tanto son fatti bene. E poi ho anche un vaso
che mi ha lasciato in eredità il mio padrone, dove Dedalo rinchiude Niobe
nel cavallo di Troia. Le battaglie di Ermerote e Petraite ce l’ho invece
sui bicchieri, che sono tutta roba massiccia. Me ne intendo io, e la mia
competenza non ho intenzione di venderla nemmeno per tutto l’oro del
mondo».
Mentre ci rifila questo elenco di roba, un ragazzo lascia cadere una
coppa. E Trimalcione, girandosi verso di lui, gli ordina: «Prenditi
immediatamente a schiaffi da solo, inetto che non sei altro». Il ragazzo
abbassa la testa e attacca subito a implorarlo. E lui: «Ma perché mi
preghi? Nemmeno se fossi io a procurarti guai. Dammi retta, è te stesso
che dovresti implorare, di non essere sempre con la testa tra le nuvole!».
E alla fine, supplicato anche da tutti noi, lascia andare il ragazzo che,
per la gioia di esser stato graziato, si mette a correre intorno al
tavolo…
«Fuori l’acqua e dentro il vino» esclama Trimalcione…
Gradiamo tutti quest’altra sua facezia, e soprattutto Agamennone, che
ormai aveva capito con quali meriti si potesse rimediare un’altra
abbuffata. E Trimalcione, a sentirsi lodare, riprende a bere di gusto e,
ormai mezzo ubriaco, dice: «Possibile che nessuno di voi chieda alla mia
Fortunata di farci danzare? Fidatevi di me: nessuno al mondo balla il
cordace meglio di lei».
Ed ecco che lui stesso, tenendo le mani alzate sopra la testa, si mette a
imitare l’attore Siro, mentre tutta la servitù lo accompagna intonando in
coro Madeia, Perimadeia. E si sarebbe andato a esibire al centro della
sala, se Fortunata non gli avesse sussurrato qualcosa all’orecchio.
Presumo gli avesse detto che stupidaggini di quel genere non si addicevano
a un uomo del suo rango. Mai vista però tanta instabilità di umore: un
attimo era quasi in soggezione di fronte alla sua Fortunata, e un attimo
dopo si lasciava di nuovo trascinare dall’istinto.
53 A togliergli la fregola del ballo ci pensa un contabile che entra in
sala e con un tono da bando comunale annuncia: «Oggi, 26 luglio, nel
podere cumano di Trimalcione, nati 30 bambini e 40 bambine; trasportati
dall’aia nel granaio 500.000 moggi di frumento; aggiogati 500 buoi. Stesso
giorno: lo schiavo Mitridate crocifisso causa bestemmie contro il nume
tutelare del nostro Gaio. Stesso giorno: chiusi in cassaforte 10 milioni
di sesterzi perché non si è trovato il modo di impiegarli. Stesso giorno:
scoppiato un incendio negli orti Pompeiani con inizio nella casa del
fattore Nasta». «Cosa?» lo interrompe Trimalcione «E quando me li sarei
comprati gli Orti Pompeiani?». «L’anno passato» risponde il contabile,
«per questo non sono ancora stati registrati». Trimalcione perde il
controllo e sbraita: «Qualunque fondo si compri, se io non ne vengo
informato entro sei mesi, vi proibisco di includerlo tra le mie
proprietà». Poi si passa alla lettura delle ordinanze emesse dagli edili,
nonché di testamenti fatti da guardie forestali, nei quali Trimalcione
viene diseredato tramite un’apposita clausola. Vengono quindi letti i nomi
dei fattori, quello di una liberta ripudiata da un guardiano perché
sorpresa a letto con un bagnino, quello di un portinaio relegato a Baia, e
in ultimo quello di un tesoriere incriminato e gli atti di una vertenza
tra camerieri.
Alla fine arrivano gli acrobati. Un mezzo deficiente tira su una scala e
dice a un ragazzo di salirci in cima un gradino dopo l’altro, ballando al
suono di certe canzonette; poi di buttarsi attraverso dei cerchi di fuoco
e di reggere un’anfora coi denti. L’unico che seguisse a bocca aperta era
Trimalcione, il quale diceva che quello sì era un mestiere ingrato, e che
gli piaceva vedere solo due cose al mondo, e cioè gli acrobati e i
suonatori di corno. Tutto il resto – animali, concerti, ecc. – erano pure
e semplici fesserie. «Un tempo avevo scritturato anche degli attori di
commedia» aggiunge, «ma ho preferito che recitassero soltanto delle
Atellane, e al mio flautista ho ordinato di suonare roba delle nostre
parti».
54 Sul più bello dello sproloquio di Gaio, il ragazzino… di Trimalcione
gli rovina addosso. La servitù è tutta un urlo, e i commensali non sono da
meno, mica per quella nullità che tutti avrebbero visto volentieri con
l’osso del collo rotto, ma piuttosto per l’orribile fine che la cena
avrebbe avuto, se solo si fosse dovuto piangere un morto di cui non
fregava niente a nessuno. Ma siccome Trimalcione si lamentava di brutto
piegandosi sul braccio come se fosse fratturato, ecco accorrere i medici
da ogni parte e, in mezzo a loro, Fortunata che, coi capelli sciolti e una
tazza in mano, urlava di essere la più sfortunata e infelice delle donne.
Nel mentre, il ragazzino che gli era franato addosso si era messo a
strisciare ai nostri piedi, implorandoci di perdonarlo. A me la cosa
puzzava alquanto: temevo che tutto quel piagnisteo preparasse il colpo di
scena di qualche trovata di cattivo gusto. Infatti non mi era uscito di
mente quel cuoco che aveva dimenticato di sventrare il maiale. Così mi
metto a ispezionare la sala da pranzo in lungo e in largo, caso mai
dovesse saltar fuori da qualche parete una nuova diavoleria, specie dopo
essermi reso conto che stavano fustigando un servo che aveva fasciato il
braccio contuso del padrone con una benda di lana e non di porpora. Non mi
ero sbagliato di troppo: infatti, al posto della punizione ecco arrivare
l’ordine di Trimalcione di rimettere in libertà il ragazzino, per evitare
che qualcuno andasse in giro a dire che un pezzo d’uomo come lui era stato
ferito da uno schiavo.
55 Approviamo il nobile gesto e ci perdiamo nelle più svariate ciance
sull’incertezza delle vicende umane. «Bisogna evitare che questo episodio»
interrompe Trimalcione «si esaurisca senza che resti qualcosa di scritto».
Si fa subito portare il necessario per scrivere e, senza spremersi granché
le meningi, ci recita questi versi:
«Quanto meno ti aspetti, accade all’improvviso.
Domina tutto la Fortuna al di sopra di noi.
Perciò ragazzo versaci del vino di Falerno».
Dopo questo epigramma, il discorso scivola sui poeti… e il primato in
quell’arte è rimasto a lungo di Mopso di Tracia… finché Trimalcione
dice: «Senti un po’, maestro: che differenza passa tra Cicerone e
Publilio?». Personalmente credo che il primo sia stato più eloquente,
mentre il secondo più morale. Com’è possibile dirlo meglio che con questi
versi?
“Sbriciola la lussuria le mura di Marte.
Per il tuo palato viene nutrito al chiuso il pavone,
avvolto nel suo drappo dorato di piume babiloniche,
e la gallina numidica e il grasso cappone.
E così la cicogna, amato ospite in viaggio,
cultrice di pietà, gracile, garrula,
uccello che fugge l’inverno, messo del tiepido tempo,
ora per te fa il suo nido nella pentola del peccato.
Perché ti è cara la perla, piccolo frutto dell’India?
Vuoi forse che la matrona piena di gemme del mare
apra le cosce ingorda su un letto d’altri?
Che fartene del verde smeraldo, preziosissima pietra?
Perché desiderare i rossi sassi di Cartagine?
Risplende l’onestà forse solo tra i rubini?
È giusto che una sposa si vesta di vento,
e poi si mostri nuda in un velo di lino?”.
56 Ma, secondo voi, qual è il mestiere più difficile» prosegue Trimalcione
«dopo quello del letterato? A parer mio quello del medico o del banchiere:
il medico perché deve sapere ciò che i poveri omicciattoli hanno dentro le
viscere e quand’è che viene la febbre, anche se personalmente li detesto
con tutto il cuore perché mi mettono sempre a brodino d’anatra; il
bancario perché deve saper distinguere il rame al di sotto dell’argento.
Tra gli animali che sono privi della parola, i più laboriosi sono il bue e
la pecora: i buoi perché se abbiamo il pane da mettere sotto i denti lo
dobbiamo a loro; le pecore perché con la lana ci rendono sciccosi. Ma la
cosa più infame è che certa gente le pecorelle se le mangia e ci si fa
pure i vestiti. Le api, poi, secondo me sono animali del cielo, perché
vomitano miele, anche se si dice che glielo fornisce Giove. E proprio per
questo pungono, perché dove là dove trovi il dolce, sta pur certo che c’è
anche l’amaro».
Stava già per rubare il mestiere ai filosofi, quand’ecco che cominciano a
far girare una coppa piena di biglietti della lotteria e uno schiavetto
addetto a questo compito estrae i numeri leggendo ad alta voce le scritte
sui premi. «Argento letale»: portano un prosciutto con sopra dei
bussolotti d’argento. «Cuscino»: ed ecco arrivare un pezzo di capicollo.
«Scemenze e insulti»: e sono offerte delle gallette scipite insieme a una
mela con dentro uno stecco. «Porri e persiche»: e vengono consegnati una
frusta e un coltello. «Passeri e moscato»: e arrivano uva passa e miele
dell’Attica. «Per la tavola e per il tribunale»: e ci becchiamo un
pasticcino e un quaderno. «Canale e pedale»: ed eccoti una lepre e una
suola di scarpa. «Murena e lettera»: e ci presentano un sorcio legato a
una rana e con un fascio di bietole. Ce la ridiamo di gusto. Di messaggi
così ne passano una marea, ma ormai chi li ricorda più?
57 E intanto Ascilto, con la sua solita faccia tosta, siccome
sbracciandosi a più non posso sbeffeggiava tutto e tutti e aveva le
lacrime agli occhi a forza di ridere, uno dei liberti amico di Trimalcione
– proprio quello che stava seduto accanto a me – salta su tutte le furie e
gli grida: «Che c’è da ridere, deficiente? Forse che non ti vanno a genio
le finezze del mio padrone? Magari sei più ricco tu e sai trattare meglio
la gente che inviti a cena. Che il nume tutelare di questa casa mi
assista, perché se sedevo vicino a quel ragazzotto, stai pur certo che a
quello lì gli avrei già fatto chiudere il becco. Una testa di rapa che
sbeffeggia gli altri! Un vagabondo, un brutto ceffo che non vale il suo
piscio. Insomma, se gli orino addosso non sa nemmeno dove darsela a gambe.
Maledetta miseria, non sono mica uno che si incazza facile, ma la gente
molle se la mangiano i vermi! E ride, lui! Ma che avrà mai da ridere? Non
sarai mica un figlio di papà, che ti ha pagato a peso d’oro? O sei
cavaliere romano? E io sono figlio di un re. “Ma allora” potresti
obiettare tu “com’è che prima facevi lo schiavo?”. Ma l’ho scelto io:
meglio essere cittadino romano che un tributario di provincia. E adesso mi
auguro di vivere così e di non venir schernito da chicchessia. Sono un
uomo tra gli uomini e cammino a fronte alta. Non devo un centesimo a
nessuno e mai ho avuto a che fare con la legge e mai nessuno nel foro mi
ha detto: “Ridammi quel che mi devi”. Mi son comprato un pezzo di terra e
ho messo da parte qualche straccio di risparmi: dò da mangiare a venti
persone più un cane, ho riscattato la mia compagna che così nessuno può
più usare il suo petto come asciugamano, e ho speso mille denari per la
mia libertà. Mi hanno eletto seviro senza scucire una lira, e così spero
di non dover arrossire nemmeno dopo morto. Tu invece sei così pieno di
cose da fare che non riesci nemmeno a voltarti? La pagliuzza negli occhi
degli altri la vedi sì, ma la trave che c’hai nei tuoi no di certo. È solo
a te che noi sembriamo ridicoli. Guarda il tuo maestro: ha un sacco di
anni in più, ma a lui gli andiamo a genio. Tu che puzzi ancora di biberon,
sei fermo al bi e al ba, razza di cesso sfondato, anzi no, pezzo di cuoio
nell’acqua: solo più molle, mica meglio. Certo, tu sei più ricco, e magari
ti abbuffi due volte a pranzo e due volte a cena. Ma io alla mia dignità
ci tengo più che a tutto l’oro del mondo. Insomma, qualcuno mi ha forse
chiesto due volte una cosa? Sono stato schiavo per quarant’anni e mai
nessuno ha saputo se ero schiavo o libero. Sono arrivato in questo paese
che ero un ragazzino con una gran testa di capelli e che la basilica non
c’era ancora. Però mi son messo sotto per far contento il padrone, che era
un pezzo grosso e un tipo rispettato, e una sua unghia valeva più di tutto
quanto sei tu messo insieme. E pensare che in casa gente pronta a farmi le
scarpe ce n’era che metà bastava. Ma io, pace all’anima sua, sono rimasto
a galla. Queste sì che sono prove. Perché a nascere liberi tutto diventa
facile, come dire: “Prego, s’accomodi”. E adesso perché mi fissi
imbambolato come un caprone in mezzo alle lenticchie?».
58 Finita questa filippica, Gitone, che se ne stava accucciato ai miei
piedi, scoppiò anche lui in una risata sguaiata dopo essersi a lungo
trattenuto. Non appena l’avversario di Ascilto se ne accorse, attaccò a
prendersela col ragazzo e lo assalì con queste parole: «E tu? Adesso ti
metti a ridere anche tu, pezzo di cipolla coi boccoli? Ma cos’è, siamo già
a Carnevale, è già dicembre? E il tuo cinque per cento quand’è che l’hai
pagato? Ma guarda cosa combina ‘sto pendaglio da forca, ‘sta carogna da
corvi. Ci penso io, che Giove ti strafulmini, te e questo qui che non sa
tenerti a bada! Possa il pane farmi schifo, se non è vero che lo lascio
stare solo per rispetto al mio compare, liberto pure lui. Altrimenti
l’avrei già messo a posto come si deve. Noi ce ne stiamo qua bravi bravi,
e questi due cretini non sanno farti stare al tuo posto. Ma è un fatto che
il servo è tale quale il padrone. A stento riesco a trattenermi: eppure
sono uno che non si scalda subito, ma quando comincio non mi fermo nemmeno
di fronte a mia madre. Bene, razza di chiavica, ci vediamo fuori, brutto
carciofo. Che io possa criccare all’istante, se il tuo padrone non lo
riduco in poltiglia e non faccio passare anche a te un brutto quarto
d’ora, dovessi anche chiamare in causa il padreterno, maledetta miseria.
Fidati, quella capoccia di capelli da due soldi non ti servirà a un bel
niente né a te né a quella mezza calzetta del tuo padrone. Dovrai pure
capitarmi a tiro: e non sono più io, se non ti tolgo la voglia di prendere
per il culo, anche se tu avessi la barba d’oro. Che Atena ti stramaledica,
te e quell’altro che per primo ti ha adescato. Io non so di matematica, né
di critica e di tutte le altre insulsaggini, ma le maiuscole le leggo e so
dividere per cento tutti i pesi e le misure. Insomma, te la vuoi fare una
scommessina? Ecco la mia posta, tira fuori la tua. E anche se mastichi un
po’ di retorica, ti farò vedere che tuo padre ha buttato via i suoi soldi.
Beccati questo:
“Cosa sono? Vado su, vado giù, indovinami un po’ tu”.
E ancora: “Chi si muove e fermo sta?”; “Cos’è che cresce e poi si
accorcia?”. Corri, t’imbamboli, annaspi che sembri un topo finito nel
cesso. E allora chiudi il becco e non infastidire chi è meglio di te e non
sa manco che sei nato. A meno che non ti passi per la testa che mi
interessi quella bigiotteria che hai alle dita e che hai grattato alla tua
troietta. San Trafficone mi protegga! Andiamo al foro a chiedere soldi in
prestito, e vedrai se il mio anello non vale di più anche se è solo di
ferro! Ah, sei proprio bello con quella faccia di volpe fradicia! Possa io
fare un sacco di soldi e morire tanto bene che la gente venga a giurare
sulla mia tomba, com’è vero che ti correrò dietro fino alla fine del
mondo, foss’anche con la toga messa al rovescio! Gran bell’elemento anche
quell’altro che ti insegna ‘sta roba, un ciarlatano, altro che maestro! Ai
miei tempi le cose non stavano così: il maestro ci diceva: “Avete finito?
Allora andatevene a casa. Non state a guardarvi intorno e abbiate rispetto
degli anziani”. Ma oggi son tutte palle e non ce n’è uno che valga un fico
secco. Quanto a me, se sono così come mi vedi, devo solo dire grazie al
padreterno per l’educazione che ho avuto».
59 Ascilto era lì lì per rispondergli per le rime, quando Trimalcione,
divertito dall’eloquenza del suo compare, interviene: «Avanti, piantatela
di litigare. Torniamocene di buonumore e tu, Ermerote, lascia stare il
ragazzino che ha il sangue caldo, e mostrati superiore. In faccende come
queste, chi cede ha sempre la meglio. Anche tu nei tuoi giorni di galletto
facevi chicchirichì e non avevi la testa granché a posto. Vediamo quindi
di tornare allegri come prima, che è meglio, e godiamoci gli omeristi». E
infatti, proprio in quell’istante, fa il suo ingresso una compagnia di
guitti al suono di aste battute contro gli scudi. Trimalcione si stravacca
per bene sul cuscino e, dato che gli omeristi si esibivano in greco
secondo la loro stramaledetta abitudine, si mette a leggere ad alta voce
un libro in latino. All’improvviso, dopo aver imposto il silenzio, dice:
«Ma lo sapete che storia stanno rappresentando? Diomede e Ganimede erano
fratelli ed Elena era la loro sorella. Agamennone la rapì e a Diana rifilò
in cambio una cerva. Così adesso Omero racconta in che modo Troiani e
Parentini si facciano la guerra. Naturalmente ha la meglio Agamennone, e
dà la figlia Ifigenia in moglie ad Achille. Ed è per questa ragione che
Aiace esce pazzo e adesso vedrete voi stessi come va a finire la vicenda».
Appena Trimalcione finisce di parlare, gli omeristi si mettono a
schiamazzare, mentre in mezzo alla servitù indaffarata viene portato,
sopra un vassoio sulle duecento libbre di peso, un vitello lesso, per di
più con un elmo sulla testa. Dietro di lui arriva un Aiace che, brandendo
la spada con gli occhi impallati, lo fa a brandelli e, colpendo ora di
taglio ora di punta, infilza i pezzetti sulla punta della lama e li
distribuisce tra gli invitati rimasti a bocca aperta.
60 Ma non possiamo goderci a lungo quelle piroette così eleganti, perché
all’improvviso il soffitto si mette a scricchiolare e l’intera sala
traballa. Balzo in piedi spaventato, nel timore che dal tetto crolli giù
qualche acrobata. Anche gli altri invitati, non meno esterrefatti di me,
alzano gli occhi per vedere quale sia la novità in arrivo dal soffitto. Ma
ecco che allora la volta si spalanca e all’improvviso viene giù un grosso
cerchio (forse tolto da un’enorme botte), lungo il cui intero perimetro
erano appese delle corone d’oro e delle boccette di alabastro piene di
profumi. Mentre veniamo invitati a prendere quei regali, io mi volto verso
la tavola…
Ci avevano già piazzato un grosso portavivande con sopra delle focaccine:
al centro, imponente, un Priapo fatto in pasticceria, reggeva in grembo,
secondo l’uso comune, frutti di ogni genere e uva. Al colmo della gola
allunghiamo le mani su tutto quel ben di dio, e all’improvviso una nuova
invenzione ci riporta il sorriso sulle labbra. Infatti non appena le
tocchiamo, da tutte quelle focaccine e da quella frutta schizza fuori
dello zafferano che con un getto sgradevole ci arriva fino alla faccia.
Pensando che una portata servita con tutta quella parata di simboli avesse
qualcosa di sacro, ci alziamo impettiti ed esclamiamo: «Lunga vita ad
Augusto, padre della patria!». Ma quando ci rendiamo conto che qualcuno,
appena finito il brindisi, aveva già arraffato dei frutti, ci riempiamo
anche noi i tovaglioli, e soprattutto il sottoscritto, cui non sembrava
mai di aver gonfiato abbastanza le tasche di Gitone.
Nel frattempo entrano tre schiavetti vestiti con delle tuniche bianche e
attillate: due piazzano sul tavolo le statue dei Lari con le loro brave
medagliette al collo, mentre il terzo porta in giro una brocca di vino
gridando: «Che gli dèi ci siano propizi!» …
Diceva che uno si chiamava Affarone, il secondo Contentone e il terzo
Guadagnone. E siccome tutti si mettono a baciare un ritratto al naturale
di Trimalcione, non ci sembra affatto bello svignarcela senza esserci
adeguati.
61 E dopo che tutti si sono scambiati l’augurio di stare bene nell’anima e
nel corpo, Trimalcione si gira verso Nicerote e gli fa: «Certo che una
volta tu a tavola eri ben più allegro: non capisco perché ora te ne stai
lì zitto e non fiati. Ma ti prego, se vuoi farmi contento, raccontami
l’avventura che ti è capitata». E Nicerote, compiaciuto per il cortese
invito dell’amico, esclama: «Possa io non guadagnare più il becco di un
quattrino, se già non faccio salti di gioia a vederti tanto in forma. Viva
dunque l’allegria, anche se ho paura che questi letterati mi ridano
dietro. Vedano un po’ loro, io tanto la racconto lo stesso. E poi cosa
vuoi che mi tolga chi ride? È meglio far ridere che essere derisi».
Dopo aver detto così,
incomincia il suo racconto:
«Quando ero ancora schiavo, abitavamo in Vico Stretto, dove oggi c’è la
casa di Gavilla. Lì, dài che ti dài, attacco a farmela con la moglie di
Terenzio, l’oste. Magari l’avete anche conosciuta, Melissa, la Tarentina,
quel gran pezzo di donna. Io però non ci avevo messo gli occhi sopra
perché era una maggiorata o per sbattermela, ma piuttosto perché aveva un
cuore grande così. Qualunque cosa le chiedevo, lei me lo dava: se
racimolava un soldo, la metà finiva a me. Quanto al sottoscritto, quello
che avevo lo passavo nelle sue tasche e non ci ho mai preso delle
fregature. Un giorno, mentre se ne stava in campagna, il suo ganzo tira le
cuoia. Allora io, facendo il boia e l’impiccato, cerco con ogni mezzo di
raggiungerla, perché – così si dice – gli amici li si vede nel bisogno.
62 Il caso volle che il mio padrone se ne fosse andato a Capua a vendere
il fior fiore del suo ciarpame. E così, cogliendo la palla al balzo,
convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Mica per
altro: era un soldato e per giunta forte come un demonio. Alziamo le
chiappe al primo canto del gallo e con una luna così chiara che sembrava
di essere di giorno. Finimmo dentro un cimitero: il mio socio si avvicina
a una lapide e si mette a pisciare, mentre io attacco a contare le lapidi
fischiettando. A un certo punto, mi giro verso il tipo e vedo che si sta
togliendo i vestiti di dosso e butta la sua roba sul ciglio della strada.
A me mi va il cuore in gola e resto lì a fissarlo che per poco ci resto
stecchito. Ed ecco che quello si mette a pisciare tutto intorno ai vestiti
e di colpo si trasforma in lupo. Non pensate che stia scherzando: non
mentirei nemmeno per tutto l’oro del mondo. Ma, come stavo dicendo, appena
trasformato in lupo, attacca a ululare e poi si va a imboscare nella
macchia. Sulle prime io non sapevo più nemmeno dov’ero: poi mi avvicino ai
suoi vestiti per raccoglierli, ma quelli erano diventati di pietra. Chi
più di me avrebbe dovuto morire dalla paura? Ciò nonostante sguaino la
spada e, menando colpi alle ombre, tra uno scongiuro e l’altro, arrivo
fino alla casa della mia amica. Entro che sembro un cadavere, senza più
fiato, con il sudore che mi scorre tra le gambe e gli occhi spenti. Tanto
che per riprendermi ci metto un bel po’. La mia Melissa, stupita di
vedermi in giro a quell’ora della notte, mi fa: “Se solo fossi arrivato un
po’ prima, almeno ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nel recinto
e ci ha massacrato tutte le pecore come un macellaio. Comunque, anche se è
riuscito a scappare, non ha da stare allegro, perché un nostro servo gli
ha trapassato il collo con la lancia”. Dopo aver sentito questa storia,
non riesco a chiudere occhio per tutta la notte, ma alle prime luci
dell’alba me la filo a casa del nostro Gaio, nemmeno fossi un oste appena
ripulito. E quando passo davanti al punto in cui i vestiti del mio compare
erano diventati di pietra, ci trovo soltanto una pozza di sangue. Quando
arrivo a casa, il soldato è lì sbracato sul letto come un bue, con al
capezzale un medico impegnato a curargli il collo. Allora mi rendo conto
che è un lupo mannaro e da quel giorno non ho più mangiato con lui manco
un tozzo di pane, nemmeno a costo della vita. Liberi voi di pensare quello
che volete, ma se vi racconto una frottola, mi stramaledicano i vostri
numi tutelari».
63 Rimaniamo tutti a bocca aperta. «Ci credo sì» commenta Trimalcione «a
questa storia – se c’è ancora qualcosa in cui credere – e ho tutti i peli
dritti perché so benissimo che Nicerone frottole non ne racconta, anzi è
un tipo serio che non ama le chiacchiere. Ma una storia incredibile ve la
voglio raccontare anch’io. Un po’ come quella dell’asino che vola. Quando
avevo ancora una testa di capelli così, che da ragazzo io facevo la bella
vita, muore il bambino del mio padrone, un ragazzino affettuoso, per dio
una perla come non ce ne sono. Mentre quella poveraccia della madre lo
stava piangendo e noi eravamo in moltissimi lì intorno a vegliarlo, ecco
che all’improvviso sentiamo urlare le streghe. Era come un cane che
insegue una lepre. C’era con noi uno della Cappadocia, uno spilungone,
tutto muscoli e niente paura, e così forte che riusciva a sollevarti un
toro imbestialito. Questo qui, allora, impugnata coraggiosamente la spada
e proteggendosi con cura la mano sinistra con la veste, si precipita fuori
della porta e infilza per bene una di quelle donne, proprio qui nel nel
mezzo, che dio me lo conservi! Noi sentiamo un gemito, ma – non è una
bugia, ve lo giuro – delle streghe nemmeno la traccia. Ma appena rientra
dentro, il nostro marcantonio si va ad accasciare sul letto col corpo
pieno di lividi, come se lo avessero preso a frustate, perché
evidentemente lo aveva toccato una mano stregata. Sprangata la porta, noi
ce ne torniamo alla nostra veglia, ma quando la madre fa per abbracciare
il corpicino del figlio, mette avanti le mani e trova soltanto un
fantoccio di paglia. Niente più cuore, niente più intestino, niente di
niente: era chiaro che le streghe si erano portate via il bambino e al suo
posto avevano messo quel fantoccio di paglia. Vi prego, mi dovete credere:
esistono realmente queste donne che ne sanno una più del diavolo, queste
creature della notte che sconvolgono ogni cosa. Del resto quel pezzo di
spilungone, dopo il fattaccio, non ha più ripreso il suo colorito e, tempo
pochi giorni, è morto pazzo da legare».
64 Noi rimaniamo senza fiato come se fossimo convinti e, baciando la
tavola, imploriamo le creature della notte di restare nelle loro dimore,
quando di lì a poco ce ne saremmo tornati dalla cena.
A dir la verità io iniziavo a vedere le lampade doppie e mi sembrava che
tutta la sala fosse mutata, quando Trimalcione esclama: «Plocamo, dico a
te, possibile che tu non ci racconti nulla? Non vuoi proprio farci
divertire? E dire che un tempo eri più simpatico, canticchiavi dei
motivetti ch’era un piacere e anche quelle canzoncine d’amore. Ahimè, bei
giorni che furono!». «Ormai» fa quello, «sono arrivato al traguardo.
Adesso ho la gotta. E pensare che quando ero giovane, a forza di cantare
quasi mi prendo la tisi. E ballare? E recitare? E fare il barbiere? Ma
quando mai c’è stato uno del mio livello, tolto Apellete?». E accostata
una mano alla bocca, ne cava fuori non so quale spernacchiata che ci
spaccia per musica greca.
Ovviamente anche Trimalcione, per non essere da meno, si mette a imitare
quelli che suonano la tromba, poi si gira a guardare il suo tesoro, un
ragazzino tutto cisposo e coi denti cariati che lui chiamava Creso.
Quest’ultimo, alle prese con una cagnetta nera, grassa da far schifo, che
cercava di avvolgere in una fascia verde pisello, aveva piazzato sul letto
una pagnotta da mezza libbra e tentava di ingozzarla a tutti i costi,
anche se la bestia si tirava indietro per la nausea. Di fronte a quello
spettacolo, Trimalcione ordina che gli venga portato Cucciolone,
«guardiano della casa e della famiglia». Un attimo dopo viene fatto
entrare un cane enorme, con tanto di catena al collo, che, non appena il
portinaio gli tira un calcio ordinandogli di fare la cuccia, si va a
piazzare davanti alla tavola. E allora Trimalcione, allungandogli un pezzo
di pane bianco, dichiara: «Non c’è nessuno in casa mia che mi ami di più».
Ma il ragazzino, indispettito da quel complimento tanto smaccato a
Cucciolone, mette a terra la cagnetta e la aizza alla rissa. E Cucciolone,
da vero cane qual era, riempie la sala di orrendi latrati e per poco non
fa a pezzi la perla di Creso. Ma il gran bailamme non si esaurisce nella
zuffa, perché un candelabro, rovesciandosi sulla tavola, manda in mille
pezzi tutti i vasi di cristallo, schizzando di olio bollente parecchi
commensali. Trimalcione, per far vedere che quel disastro non gli faceva
né caldo né freddo, bacia il ragazzino e se lo fa salire sulle spalle.
Quello non se lo fa ripetere due volte: gli si mette a cavalcioni e gli
assesta delle gran pacche a mano aperta sulla schiena, strillando tra una
risata e l’altra: «Indovina indovinello quante sono queste qua!». Dopo
essersi finalmente sfogato, Trimalcione ordina di preparare un gavettone
per dare da bere ai servi seduti ai nostri piedi, ma a una condizione: «Se
qualcuno non gli va, rovesciateglielo in testa: di giorno serietà, ma
adesso allegria».
65 Dopo questo slancio di bontà arrivano delle altre leccornie, che, vi
giuro, mi viene la nausea soltanto a ripensarci. A ciascuno degli
invitati, invece dei tordi, portano una gallina d’allevamento, e uova di
papera incappucciate, che Trimalcione fa di tutto per costringerci ad
assaggiare, dicendo che erano galline disossate. Proprio in quel frangente
un littore bussa alla porta della sala ed ecco entrare un nuovo commensale
in tunica bianca e con al seguito un gran numero di persone. Impressionato
da una simile maestà, io pensavo fosse arrivato il pretore, e così faccio
per alzarmi, nonostante fossi a piedi nudi. Di fronte a questa mia
agitazione Agamennone scoppia a ridere e dice: «Ma sta’ tranquillo, scemo.
È soltanto il seviro Abinna, che è anche marmista e pare faccia delle
bellissime lapidi».
Tranquillizzato da questo suo intervento, torno a distendermi e mi godo
con enorme curiosità l’ingresso di Abinna. Quello, ormai ubriaco,
appoggiandosi con le mani sulle spalle della moglie, mentre l’olio
profumato dalla fronte gli colava fin negli occhi a causa delle molte
corone piazzate sulla testa, si sistema al posto d’onore, e ordina subito
vino e acqua calda. Compiaciuto dell’allegria che c’era in sala,
Trimalcione si fa portare anche lui un boccale più grosso e poi chiede ad
Abinna come gli era andata. «Tutto perfetto: mancavi solo tu. Io però ero
qui col pensiero. Ma, dio di un dio, è andata alla grande. Scissa ha
offerto un ricco novendiale in onore di un suo schiavo che, povero
diavolo, lui aveva liberato in punto di morte. Ma mi sa che avrà delle
brutte rogne con le tasse, perché il morto gliel’hanno valutato 50.000
sesterzi. Comunque siamo stati che è un piacere, anche se ci è toccato
versare metà del vino sulle quattro ossa di quel disgraziato».
66 «Va bene, va bene» fa Trimalcione. «Ma per cena che cosa vi hanno
dato?». «Adesso» risponde l’altro, «provo a dirtelo, se ci riesco. Ma io a
memoria vado così forte che a volte non mi ricordo manco come mi chiamo.
Ad ogni modo, di primo ci hanno portato del maiale incoronato di salsicce
e di ventrigli di pollo cucinati meravigliosamente, bietole e pane
integrale autentico, che io preferisco a quello bianco perché ti rimette
in forze e quando faccio i miei bisogni non mi vengono le lacrime agli
occhi. Di secondo ci hanno portato una focaccia fredda con sopra del miele
caldo, di quello spagnolo che è la fine del mondo. La focaccia l’ho
assaggiata appena, il miele invece me lo son fatto uscire dagli occhi. Di
contorno ceci e lupini, noci a piacere e una mela a testa. Io comunque me
ne sono prese due, e la seconda ce l’ho qua nel tovagliolo, perché se al
mio schiavetto non gli porto qualcosa, finisce che mi fa una scenata. Ah
sì, fa bene a ricordarmelo la mia signora. Avevamo davanti agli occhi
anche un bel pezzo di carne di orso e Scintilla, dopo averne assaggiata un
po’ senza starci a pensare, a momenti si vomita anche le budella. Io
invece me ne son fatta più di una libbra perché sapeva di carne di
cinghiale. E poi, dico io, se l’orso si pappa gli ometti, perché gli
ometti non dovrebbero papparselo l’orso? Per dessert ci hanno portato
formaggio fresco, sapa, lumache, una a testa, trippa, fegatini al
tegamino, uova alla coque, rape, senape e un piatto con dentro della roba
che sembrava merda. Ma basta! Niente da fare: hanno fatto girare anche un
vaso di olive in salamoia, e dei burini se ne sono prese fino a tre
manciate a testa. Il prosciutto invece lo abbiamo rimandato al mittente».
67 «Ma dimmi un po’, Gaio, te ne prego, com’è che Fortunata non è della
partita?». «Come? Non lo sai» gli risponde Trimalcione «che quella, finché
non ha rimesso a posto tutta l’argenteria e distribuito gli avanzi ai
servi, non butta giù nemmeno una goccia d’acqua?». «Va bene» incalza
Abinna, «ma se lei non si fa vedere, io alzo le chiappe e tolgo il
disturbo». E aveva già fatto il gesto di alzarsi, quando, su ordine del
padrone, tutta la servitù si mette a chiamare Fortunata quattro volte e
più. Così lei arriva, con il vestito tenuto su da una cintura giallina che
le si vedeva sotto la tunica color ciliegia, i cerchietti intrecciati alle
caviglie e gli stivaletti dorati. Allora, asciugandosi le mani con un
fazzoletto che aveva al collo, si va a sdraiare accanto a Scintilla, la
moglie di Abinna, e mentre questa batte le mani, la sbaciucchia dicendo:
«Te, beato chi ti vede!».
Tra un discorso e l’altro, si arriva al punto che Fortunata si sfila i
braccialetti dalle braccia grassissime e li mostra a Scintilla tutta presa
dalla cosa. Poi si toglie anche i cerchietti dalle caviglie e la reticella
da capelli che a sua detta era di oro puro. Trimalcione segue la scena e
poi, alla fine, si fa portare il tutto dicendo: «Ecco qua le catene delle
donne! E noi, baccalà, ci facciamo ripulire fino all’osso. Questo qui mi
sa che pesa almeno sei libbre e mezzo. Però un bracciale da dieci libbre
ce l’ho anch’io, che me lo son fatto fare coi millesimi di Mercurio». Poi,
per far vedere che non raccontava frottole, si fa portare una bilancia e
pretende che i commensali se la passino per verificare il peso del
bracciale. Ma Scintilla non è da meno, perché si toglie dal collo un
astuccio in oro da lei chiamato Felicione e ne estrae due orecchini che
porge a Fortunata, dicendole: «Questi sono un regalo del mio signor marito
che di più belli non ce ne sono». «Sfido io!» sbotta Abinna. «Per farti
comprare quegli affari di vetro, mi hai portato via anche la camicia! Stai
pur certa che se avessi una figlia, le taglierei i lobi delle orecchie. Se
non ci fossero le donne, ti tirebbero dietro la roba. E invece, guarda un
po’, ci tocca pisciare caldo e bere freddo».
Intanto le due donne, toccate nel vivo, mezze brille com’erano già, se la
ridono e si sbaciucchiano, mentre una elogia il suo impegno di madre di
famiglia, e l’altra si lamenta delle scappatelle del marito e di quanto
lui la trascuri. E mentre se ne stanno così appiccicate, Abinna, senza
farsi vedere, si alza e tira Fortunata per i piedi, facendola finire lunga
e distesa sul letto. «O porca…» urla quella con il vestito che svolazza
fin sopra le ginocchia. Poi però si ricompone e si va a buttare tra le
braccia di Scintilla, nascondendosi con il fazzoletto la faccia resa
ancora più volgare dal rossore.
68 Poco dopo Trimalcione ordina di servire il dessert, e i servi
sparecchiano i tavoli e preparano dei nuovi coperti, spargendo per terra
della segatura colorata di zafferano e di carminio e, cosa questa che non
avevo mai visto, della polvere di mica. Subito Trimalcione attacca: «Certo
poteva bastare la prima portata. Invece c’è anche il dolce. E se di là
avete qualcosa di buono, allora portatelo».
Intanto uno schiavetto di Alessandria impegnato a servirci l’acqua calda
comincia a imitare l’usignolo, con Trimalcione che ogni tanto gli grida:
«Cambia». E allora ecco arrivare un altro numero. Un servo che era
sdraiato ai piedi di Abinna, a un cenno direi del padrone, comincia a
declamare ad alta voce:
«Intanto Enea era già in mare aperto con la flotta».
Un suono più duro e sgradevole io non l’avevo mai sentito: infatti quel
tizio, oltre agli alti e bassi casuali nei toni e agli errori di pronuncia
tipici di chi è straniero, mescolava al testo dei versi di Atellana, tanto
che per la prima volta in vita mia anche Virgilio mi fece venire il
voltastomaco. Quando a un certo punto non ne poteva più, Abinna aggiunge:
«E pensare che a scuola non ci ha mai messo piede: sono stato io che per
fargli imparare qualcosa lo mandavo dai suonatori ambulanti. Ed è per
questo che adesso è una forza quando si mette a fare il verso ai
mulattieri e ai suonatori ambulanti. E poi è un talento nato: sa fare il
sarto, il cuoco, il pasticciere, un drago in tutti i mestieri. Certo, due
difetti ce l’ha, sennò sarebbe perfetto: è circonciso e russa. Che poi sia
strabico, non me ne importa: ha gli occhi come Venere. Per questo non sta
mai zitto, e i suoi occhi sono sempre mobilissimi. L’ho pagato trecento
denari…».
69 Scintilla lo interrompe e sbotta: «Non li hai mica raccontati tutti i
pregi di questo schiavo, eh? Perché ti fa anche da ruffiano, ma io uno di
questi giorni lo faccio marchiare». Trimalcione rise e disse: «Lo
riconosco, il Cappadoce: non si priva di nulla e com’è vero dio fa pure
bene, perché son cose quelle che nella bara non ce le regala più nessuno.
Ma tu, Scintilla, vedi di non fare troppo la gelosa. Credimi, voi donne vi
conosciamo bene. Morissi qui sul posto, se non è vero che ai miei tempi mi
sbattevo la padrona, tanto che anche il padrone ha fiutato qualcosa e mi
ha spedito a sgobbare in campagna. Ma non fatemi parlare che è meglio». Ma
quella lenza di uno schiavo, come se avessero detto mirabilia sul suo
conto, tira fuori una piccola lampada di argilla e per una buona mezz’ora
imita la tromba, con Abinna che lo accompagna facendo vibrare il labbro
inferiore. Alla fine avanza nel mezzo della sala e imita il flautista con
due pezzi di canna, per poi passare a fare il verso al mulattiere con un
mantello e una frusta, finché Abinna lo richiama a sé e lo sbaciucchia
porgendogli un bicchiere di vino: «Sei sempre più gagliardo, Massa, eccoti
in dono un bel paio di sandali».
Dio solo sa quando sarebbe finito quello strazio, se non avessero servito
il dolce, a base di tordi farciti di uva passa e noci. Poi arrivano delle
mele cotogne piene di spine per farle sembrare tanti ricci. E questo
ancora ancora era tollerabile, se non avessero portato un piatto ben più
spaventoso che ci fa pensare che sarebbe stato meglio morire di fame.
Quando viene servita in tavola, occhio e croce ci sembra un’oca obesa con
contorno di pesci e di uccelli assortiti: «…», dice Trimalcione, «tutto
quello che vedete in tavola è fatto di un unico ingrediente». E io,
siccome un paio di cose le so, capisco subito di cosa si tratta e,
rivolgendomi ad Agamennone, gli dico: «Ci va già bene se tutta ‘sta roba
non è fatta di… o almeno di fango. A Roma ne ho viste, a Carnevale, di
cene così che erano tutte finte».
70 Non avevo ancora finito di parlare, che Trimalcione riattacca: «Possano
tutte le mie ricchezze, e non la pancia, smettere di crescere, se non è
vero che per fare tutte queste cose il mio cuoco ha usato solo carne di
porco! Bravi come lui non ce ne sono. Se solo lo volete, quello è capace
che con una vulva vi fa un pesce, con un pezzo di lardo un piccione, con
un prosciutto una tortora e con un culatello una gallina. Ed è per questo
che io – ma sarò in gamba? – gli ho dato un nome bellissimo: l’ho chiamato
Dedalo. Siccome poi è davvero tanto in gamba, gli ho portato in dono da
Roma dei coltelli in acciaio Norico». Se li fa subito portare e, dopo
averli scrutati per bene con aria soddisfatta, ce li passa per farcene
provare l’affilatura sulla faccia.
Tutto a un tratto entrano due servi, che sembrano reduci da una rissa alla
fontana, perché hanno ancora le anfore sulle spalle. Trimalcione si mette
a fare il giudice tra i due litiganti, solo che quelli se ne fottono della
sua decisione e cominciano a percuotere con un bastone l’uno l’anfora
dell’altro. Colpiti dall’insolenza di quei due ubriachi, li stavamo
guardando a bocca aperta mentre si scazzottavano, quando notiamo che le
anfore rotte seminano in giro patelle e ostriche, subito raccattate da uno
schiavetto che ce le viene a servire in un piatto. Quel cuoco ingegnoso
non è però da meno quanto a finezze e ci serve delle lumache su una
graticola d’argento, mettendosi poi a cantare un motivetto con una voce
tremula e cavernosa.
A raccontare il seguito mi vergogno quasi: come non mi era mai successo
prima, due ragazzi con delle teste di capelli così portano dell’olio
profumato in un catino d’argento e ungono i piedi ai commensali, legandone
poi le gambe e le caviglie con coroncine di fiori. Quel che resta di
quell’olio profumato lo versano poi dentro la lampada e nel contenitore
del vino.
Fortunata aveva già voglia di fare due salti, e Scintilla più che parlare
riusciva solo a battere le mani, quando Trimalcione disse: «Vi concedo di
venirvi a sedere qui al mio tavolo, a te Filargiro, e pure a te Carione e
a Menofila, la tua signora, anche se sei un Verde malfamato». E cos’altro
ci mancava? Per poco non ci cacciano giù dai triclinî, tanto la servitù
aveva invaso la sala da pranzo. Certo è che mi trovo spaparanzato addosso
il cuoco che aveva trasformato il porco in anatra e che feteva di sughetti
e salamoia. E come se non gli bastasse di essere lì a tavola, il tipo
attacca a fare il verso a Efeso, l’attore tragico, e addirittura a
stuzzicare il padrone con questa scommessa: «Nei prossimi giochi al Circo,
la palma va ai Verdi!».
71 Eccitato da questa sfida, Trimalcione fa: «Amici, anche gli schiavi
sono uomini e hanno bevuto il nostro stesso latte, solo che poi il destino
non gli ha detto bene. Ad ogni modo, presto berranno l’acqua della
libertà, com’è vero che io sono ancora al mondo. Insomma, nel mio
testamento io li affranco tutti. A Filargiro gli lascio pure un pezzo di
terra e la sua donna, a Carione un palazzo intero, i soldi per pagarsi la
tassa del riscatto e un letto già belle che pronto. Erede universale
nomino invece la mia Fortunata e la raccomando a tutti i miei amici. E
tutte queste disposizioni le rendo pubbliche proprio perché l’intera casa
cominci ad amarmi adesso come se fossi già morto». Tutti avevano già
attaccato a ringraziare il padrone di tanta gentilezza, quando lui,
lasciando perdere le ciance, ordina che gli portino una copia del
testamento e lo legge da cima a fondo, mentre tutta la servitù singhiozza
in sottofondo. Poi, rivolgendosi ad Abinna, gli fa: «E tu che ne dici,
caro amico mio? Me lo stai costruendo, vero, il mio monumento sepolcrale
come t’ho chiesto io? Ma soprattutto ti raccomando di scolpire ai piedi
della mia statua la cagnetta, delle corone, dei vasi di fiori e in più
tutti i combattimenti di Petraite, così che per merito tuo io possa vivere
anche dopo la morte. E provvedi a che la tomba sia larga trenta metri e
lunga sessanta. Poi voglio che intorno alle mie ossa ci siano frutti di
ogni tipo e viti in abbondanza. Infatti mi sembra una vera assurdità avere
case eleganti quando si è vivi, e non curarsi affatto di quella in cui ci
tocca vivere più a lungo. Ed è proprio per questo che voglio, prima di
ogni altra cosa, che sulla mia tomba ci sia scritto: “Questo sepolcro non
passi agli eredi”.
In più, col testamento mi regolerò in modo che nessuno mi possa offendere
da morto. Così darò disposizioni che a guardia del sepolcro ci sia sempre
uno dei miei liberti, per evitare che la gente vada a cacarci sopra. Mi
raccomando, poi, di scolpirci nel mio mausoleo… anche le navi con le
vele al vento, e me che me ne sto seduto in tribunale con la pretesta
addosso e cinque anelli al dito, nell’atto di distribuire soldi al popolo
da una sacca. Lo sai benissimo che una volta ho offerto un banchetto da
due denari a testa. Se poi ti garba, mettici pure dei triclini pieni zeppi
di gente che se la spassa. Alla mia destra colloca però la statua della
mia Fortunata con in mano una colomba e la cagnetta al guinzaglio, e pure
il mio tesoro e tante anfore ben sigillate che il vino non esca fuori. Se
ti va, ci puoi anche scolpire un’urna rotta con un ragazzino che ci piange
sopra. Poi nel mezzo mettici un orologio, così che chiunque voglia leggere
l’ora, legga volente o nolente il mio nome. Per l’iscrizione, dimmi un po’
cosa te ne pare di questa: “Qui riposa G. Pompeo Trimalcione Mecenaziano.
Gli decretarono il sevirato mentre lui era assente. Pur potendo far parte
di qualsiasi decuria di Roma, non lo volle. Devoto, forte, leale, anche se
venuto su dal nulla, lasciò trenta milioni di sesterzi, senza mai dare
ascolto a un filosofo. Salute”. “Anche a te”».
72 Detto questo, Trimalcione attacca a piangere come una fontana. Piangeva
Fortunata, piangeva anche Abinna, e alla fine piangeva anche tutta la
servitù, riempiendo di singhiozzi l’intera sala, come se stessero seguendo
un funerale. E stavo per scoppiare in lacrime anch’io, quando Trimalcione
disse: «Ma allora, visto che sappiamo benissimo di dover morire, perché
nel frattempo non pensiamo un po’ a vivere? Su, dài, che vi voglio vedere
tutti felici. Andiamoci a fare un bel bagno. Fidatevi di me e non ve ne
pentirete: è caldo come un forno». «Giusto, giusto» esclama Abinna,
«dobbiamo vivere un giorno come se fosse due. Così mi piace». E salta su a
piedi scalzi, per seguire Trimalcione che gongolava.
Io mi giro verso Ascilto e lo apostrofo: «Che ne dici? Io se solo vedo il
bagno, ci resto secco sul colpo». «Diciamo di sì» mi risponde, «e mentre
quelli se ne vanno al bagno, noi ce la battiamo nel mucchio». Approviamo
l’idea e, scortati da Gitone lungo il portico, guadagniamo l’uscita, dove
però un cane alla catena ci accoglie con tali latrati che Ascilto finisce
a gambe all’aria nell’acqua della vasca. Anch’io, che quanto a ubriachezza
non ero da meno e che prima mi ero spaventato persino di fronte al cane
dipinto sulla parete, finisco in acqua mentre cerco di dare una mano ad
Ascilto che annaspa nell’acqua. A salvarci è il portinaio che col suo
intervento mette a tacere il cane e riesce a tirarci in secco tutti
tremanti. Gitone, nel frattempo, se l’era cavata alla grande col cane,
buttando alla bestia latrante tutti gli avanzi della cena che noi gli
avevamo affidato: e il cane si era ammansito, attratto dal cibo. Ma
quando, tutti intirizziti, chiediamo al portinaio di farci sgusciare
fuori, quello replica: «Grosso errore se credete di potervene andare dalla
porta attraverso la quale siete entrati. Nessun invitato è mai passato
dallo stesso ingresso: da una parte si entra, e da un’altra si esce».
|[continua]|

|[SATIRICON, 3]|
73 Che cosa potevamo fare, noi poveri diavoli, chiusi in quel labirinto di
nuovo genere, se non vedere un bagno caldo come l’unica via d’uscita? Così
siamo noi a chiedere al portinaio di accompagnarci e, dopo esserci tolti i
vestiti che Gitone mette ad asciugare sulla soglia, entriamo nella sala da
bagno che guarda caso era così stretta da sembrare una cella frigorifera,
con dentro Trimalcione impalato in piedi. Neppure lì riusciamo a evitare
le sue schifose esibizioni: stava infatti dicendo che non c’era niente di
meglio al mondo che lavarsi senza tanta gente intorno e che in quel punto
c’era prima un mulino. Poi, quando si sente senza forze, si siede e,
ispirato dall’acustica del locale, gira il suo faccione da ubriaco verso
il soffitto e attacca a massacrare le romanze di Menecrate (così almeno
dicevano quelli che capivano le sue parole). Gli altri invitati, nel
frattempo, correvano lungo la vasca dandosi la mano e cantavano un
ritornello facendo un baccano terrificante. Altri, invece, cercavano di
raccogliere dal pavimento degli anelli con le mani strette dietro la
schiena, o di toccarsi la testa con la punta dei piedi piegandosi con le
ginocchia e rovesciandosi all’indietro. Mentre quelli se la spassavano con
questi giochetti, noi ci infiliamo nella vasca che era stata preparata per
Trimalcione.
Smaltita così la sbornia, ci portano in un’altra sala, dove Fortunata
aveva preparato degli altri manicaretti, perché sopra le lampade vedo…
pescatori di bronzo, tavole in argento massiccio, calici di terracotta
dorata e vino che sgorgava da un otre lì davanti ai nostri occhi. E
Trimalcione dice: «Amici, oggi un mio servo si è rasato per la prima
volta. E siccome è un tipo parsimonioso e risparmiatore fino alle
briciole, gozzovigliamo e stiamocene a tavola fin che fa giorno».
74 Stava pronunciando queste parole, quando arrivò il canto di un gallo.
Turbato da quel suono, Trimalcione fa versare del vino sotto il tavolo e
anche sulla lampada. Poi, passandosi l’anello alla mano destra, disse: «Se
questo trombettiere ha dato l’allarme non può non esserci un buon motivo:
mi sa che sta per scoppiare un incendio o qui intorno qualcuno è lì lì per
esalare l’anima. Vade retro da noi! Chi mi trova questo profeta del
malaugurio si becca una bella mancia». Detto fatto: lì dal vicinato gli
portano un gallo e Trimalcione ordina di cucinarlo. Sventrato da quel
genio d’un cuoco che poco prima aveva trasformato la carne di maiale in
pesci e uccelli, il gallo viene messo in pentola, mentre Dedalo ci versa
dentro dell’acqua bollente e Fortunata trita sopra il pepe con un macinino
di legno.
Dopo aver assaggiato un po’ anche di questo manicaretto, Trimalcione si
rivolge ai suoi schiavi e dice: «Ma come, voi non avete ancora mangiato?
Avanti, sparite e fate venire degli altri a servire». Entra così un nuovo
gruppo e, mentre i primi esclamavano: “Statti bene, o Gaio”, i nuovi
arrivati fecero eco dicendo: “Salute a te, o Gaio”. Ma da quel momento il
nostro buon umore cominciò a guastarsi, perché tra i servi appena venuti
c’era un ragazzino niente male che Trimalcione, appena lo vede, gli si
butta al collo attaccando a sbaciucchiarselo tutto. Ma Fortunata, facendo
valere il suo sacrosanto diritto, comincia a inveire contro Trimalcione,
dandogli dello sporcaccione e dell’impunito, incapace addirittura di
controllare la sua foia. E, per finire, lo chiama “cane”. Allora
Trimalcione, colpito dall’insulto, per tutta risposta, le tira in faccia
un calice. Ma lei, come se ci avesse rimesso un occhio, attacca a
strillare e si porta le mani tremanti al viso. Chi è anche sconvolta è
Scintilla, che si stringe al petto l’amica in lacrime e singhiozzi, mentre
un ragazzino pieno di premure le porge una bacinella con dell’acqua fresca
e Fortunata ci si piega sopra tra lacrime e gemiti. Trimalcione, invece,
senza badarle, prorompe: «Ma non se lo ricorda cos’era questa baldracca di
una canzonettara? L’ho tolta io dal marciapiede e ne ho fatto una signora
tra le signore. Lei no, si gonfia come una rana, si crede chissà chi: è
una testa di legno, altro che una donna! Ma chi è nato in una capanna non
si sogna certo un palazzo. E se solo la mia buona stella mi assiste, ci
penso io a domare questa Cassandra in ciabatte! E pensare che avrei potuto
avere in moglie una donna con un milione di sesterzi, razza di idiota che
non sono altro. E tu lo sai che non racconto frottole. Agatone, il
profumiere di una vicina di qui, mi prende da parte e mi dice: “Non vorrai
mica lasciar morire così la tua stirpe!”. E io, da bonaccione che sono e
per non sembrare uno sconsiderato, mi sono dato la zappa sui piedi.
D’accordo: ma farò in modo che tu mi venga a cercare grattando la terra
con le unghie. Anzi, per capire già fin da adesso il bel guadagno che ci
hai fatto, guarda: Abinna, la sua statua non mi va più che la scolpisci
sulla mia tomba, perché non ho nessuna intenzione di farmi del sangue
cattivo anche da morto. Anzi, perché sappia che con me non c’è da
scherzare, le proibisco di baciarmi quando sarò cadavere».
75 Dopo questa sfuriata, Abinna comincia a implorarlo di calmarsi. «Tutti
possono sbagliare. Siamo uomini, non dèi». Le stesse cose gliele ripete
anche Scintilla in lacrime, chiamandolo Gaio e scongiurandolo in nome del
suo nume tutelare di avere pietà. E Trimalcione, non riuscendo più a
trattenere le lacrime, sbotta: «Ti prego, Abinna, e che tu possa godere a
lungo dei tuoi soldi, ma sputami in faccia se ho fatto qualcosa di male.
Ho baciato un ragazzino tutto per bene, non tanto perché è carino, ma
perché è pieno di pregi: sa dividere per dieci, legge i libri a prima
vista, coi suoi risparmi si è comprato una tenuta da Trace, e poi una
poltrona e due vasi, sempre di tasca sua. Non è dunque giusto che sia la
pupilla dei miei occhi? Ma Fortunata non vuole. È così che la mettiamo,
razza di spocchiosa? Lo vuoi un consiglio? Cerca di capire il colpo di
fortuna che hai avuto, razza di arpia, e non irritarmi più del dovuto, se
no finisce che lo vedi di cosa sono capace, zoccola da strapazzo. Eppure
mi conosci: se mi ficco in testa qualcosa, è come un chiodo piantato in un
muro. Ma pensiamo a noi, piuttosto. E voi, amici, vi prego, su con la
vita. Come voi lo sono stato anch’io, ma per la mia bravura sono arrivato
fino a qui. È il cuore che fa l’uomo, e tutto il resto sono quisquilie.
“Compro bene, vendo bene”. C’è chi vi dirà una cosa, chi un’altra. Sta di
fatto che io ho benessere da vendere. E tu invece, cosa continui a
piangere, razza di lagna? Bada che se non la pianti, ti faccio piangere
io. Allora, come vi stavo dicendo, è stata la mia parsimonia a farmi
arrivare così in alto. Quando sono arrivato dall’Asia ero alto come quel
candelabro: ogni giorno mi ci andavo a misurare e, per farmi crescere la
barba più in fretta, mi ungevo la faccia con l’olio delle lampade. Per
quattordici anni sono stato il cocco del padrone, e non venitemi a dire
che è un obbrobrio: chi comanda è il padrone. Io comunque mi facevo a mia
volta la padrona. Capite benissimo di cosa parlo: ma non aggiungo altro,
perché non sono uno che si dà arie».
76 «Ad ogni modo, come gli dèi han voluto, in quella casa divenni io il
padrone, e il mio signore faceva tutto di testa mia. Che altro dovrei
dirvi? Mi nominò erede unico insieme all’imperatore, lasciandomi un
patrimonio da senatore. Ma nessuno ne ha mai abbastanza, e così mi buttai
nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi,
le caricai di vino – che in quel tempo era oro colato – e lo spedii a
Roma. Però, nemmeno a farlo apposta, le navi andarono a picco dalla prima
all’ultima. È la verità, mica una frottola. In un solo giorno il mare si
pappò trecentomila sesterzi. Credete che mi sia scoraggiato? Manco a
pensarlo: la cosa non mi fece né caldo né freddo, come se non fosse
successo un bel niente. Invece feci costruire altre navi, più grosse, più
robuste e più fortunate, così che tutti andassero a dire in giro che ero
uno che non si scoraggia. Lo sapete benissimo, più una nave è grande, più
diventa resistente. Imbarcai di nuovo vino, lardo, fave, cosmetici e
schiavi. In quel frangente fu Fortunata a compiere un bel gesto davvero:
vendette in massa gioielli e guardaroba e mi mise in mano cento monete
d’oro. E per le mie finanze questo gruzzolo fu come lievito. Quando poi il
cielo ti assiste, le cose filano ch’è un piacere. Con un viaggio soltanto
mi misi in tasca dieci milioni di sesterzi. Riscattai subito la terra che
era stata del mio padrone, mi tirai su una casa, acquistai schiavi e
bestie da soma. Tutto quello che toccavo, cresceva come fosse stato un
favo. Quando mi resi conto di esser più ricco di tutta la mia città messa
insieme, la piantai col commercio e mi misi a prestare a interesse ai
liberti. A essere sinceri, non lo facevo volentieri quel traffico, ma a
spingermi a continuare fu un astrologo che dalle nostre parti ci era
capitato per caso, un greco di nome Serapa, che quanto a consigli poteva
darne anche agli dèi. Riuscì a elencarmi per filo e per segno anche quelle
cose che ormai io mi ero bello che dimenticato. Sembrava in grado anche di
leggermi negli intestini, e poco mancò che mi sapesse dire anche quello
che avevo mangiato il giorno prima. Sembrava avesse passato con me una
vita intera».
77 «Dammi una mano, Abinna, se non sbaglio c’eri anche tu, no, quando mi
diceva: “Tu la padrona l’hai conquistata con quella tua tecnica. Tu con
gli amici non sei granché fortunato. Nessuno ti è mai grato abbastanza di
quello che fai. Tu possiedi terre a perdita d’occhio. Tu ti porti in seno
una vipera”. E – perché poi non dovrei confessarvelo – che mi restano da
vivere trent’anni, quattro mesi e due giorni, e che riceverò presto
un’eredità. Il mio oroscopo è questo. Se poi riuscirò a toccare la Puglia
coi miei terreni, allora sì che avrò speso bene la vita. Nel frattempo,
con l’aiuto di Mercurio, mi sono costruito questa casa. E voi lo sapete
benissimo che era una bicocca: adesso è diventata una reggia. Ha quattro
sale da pranzo, venti camere da letto, due porticati in marmo, una serie
di stanze al piano di sopra, la camera dove dormo io, un salottino per
questa vipera qua, e un alloggetto niente male per il portinaio. Per gli
ospiti, poi, lo spazio non manca. Quando Scauro è transitato di qua, non
ha voluto alloggiare se non da me, e dire che il padre ha una gran villa
sul mare. E ci sono anche tante altre cose che tra un attimo vi faccio
vedere. Credete a me: noi valiamo per quello che abbiamo. Più possiedi,
più sarai considerato. Prendete il vostro amico: da rana che era, adesso è
diventato re. Ma ora Stico portami la roba con cui voglio essere
seppellito. E portami anche i cosmetici e un dito di quel vino
nell’anfora, che voglio lo usino per lavarmi le ossa».
78 Stico non si fa pregare, e in un attimo porta in sala una coperta
bianca e una toga pretesta… che lui ci ordina di palpare, per vedere se
erano di lana buona o meno. Poi, sorridendo, riprende: «Sta’ all’occhio,
Stico, che non me le rodano i sorci o le tarme, se no ti brucio vivo.
Voglio un funerale coi fiocchi, con tutta la gente dietro a parlar bene di
me». Poi stappa una boccetta di nardo e ci unge dal primo all’ultimo
dicendo: «Spero che da morto questo profumo mi piaccia come da vivo». Dopo
aver fatto versare del vino nel contenitore, aggiunge: «Fate conto ch’io
vi abbia già invitati al mio banchetto funebre».
La faccenda stava diventando nauseante, quando Trimalcione, ormai stordito
dalla sbornia, ordina che entri nella sala una nuova banda – questa volta
costituita da suonatori di corno – e, stravaccandosi su una montagna di
cuscini, si sdraia in fondo al divano, dicendo: «Fingete che sia morto e
suonatemi qualcosa di carino». Gli orchestrali attaccano un’assordante
marcia funebre e specialmente uno di essi, il servo di quell’impresario di
pompe funebri, che era il più rispettabile in quella combriccola, si butta
sullo strumento con una foga tale da svegliare tutto il vicinato. E così,
i pompieri che erano in servizio in quel quartiere, credendo che la casa
di Trimalcione stesse andando a fuoco, sfondano subito la porta e si
mettono a fare il loro solito caos a base di colpi di accetta e secchiate
d’acqua. E noi, approfittando di quella meravigliosa occasione, salutiamo
al volo Agamennone e filiamo via di corsa proprio come se stessimo
scappando da un incendio.
79 Non avevamo dietro nemmeno una torcia che ci illuminasse la via, né il
silenzio della notte ormai a metà del suo corso ci faceva sperare nel lume
di qualche passante. A tutto questo si aggiungeva il fatto che eravamo
ubriachi e non conoscevamo quella zona, dove sarebbe stato difficile
districarsi anche in pieno giorno. Così, dopo aver girato per quasi un’ora
in mezzo a sassi e a pezzi di anfora rotta con i piedi che ci
sanguinavano, alla fine riuscimmo a venirne a capo solo grazie
all’accortezza di Gitone. Quel furbone, infatti, la sera prima, temendo
che da quelle parti ci si potesse perdere anche alla luce del sole, aveva
marcato col gesso tutti i pilastri e le colonne, e adesso quei segni che,
bianchi com’erano, li si poteva distinguere anche nel cuore della notte,
ci indicavano la giusta via. Ma anche alla locanda ci toccò sudare, perché
la vecchia aveva passato la giornata a riempirsi di vino insieme agli
altri clienti, e adesso non si sarebbe svegliata nemmeno dando fuoco alla
casa. E forse avremmo passato il resto della notte lì sulla porta, se non
fosse passato un corriere di Trimalcione scortato da dieci carri, il
quale, senza stare tanto a bussare, scaraventò giù la porta, permettendoci
così di entrare attraverso quel varco.
*
Che notte stupenda fu quella, o numi del cielo,
Che letto di fiaba! Uniti nel fuoco dei baci,
Le anime ardenti scambiammo, passandole
di bocca in bocca. Addio, mortali affanni!
Quello sì che fu un dolce morire.
Ma ho ben poco da stare allegro. Appena infatti la sbornia e il sonno mi
allentano la presa, Ascilto, sempre pronto a inventarne di nuove, mi porta
via il ragazzino nel cuore della notte e se lo trascina nel letto,
spupazzandosi alla grande quell’amante non suo: e Gitone, vuoi perché
insensibile all’offesa, vuoi perché fingeva di non accorgersene, finisce
coll’addormentarsi nella braccia di quell’estraneo, con somma indifferenza
per ogni umano rispetto. Così, quando apro gli occhi e allungando la mano
nel letto mi accorgo che il mio tesoro non c’è più, rimango lì nel dubbio
(ammesso che si debba prestar fede agli innamorati) se valga la pena di
trafiggerli con la spada, facendoli così passare dal sonno alla morte. Poi
però, scegliendo la soluzione più saggia, sveglio Gitone a furia di botte
e, fissando Ascilto con aria truce, gli urlo: «Visto che con questo bel
numero hai violato la parola data e l’amicizia che ci legava, levati di
torno più presto che puoi e vai a fare le tue schifezze da qualche altra
parte».
Ascilto non batte ciglio e, dopo aver diviso d’amore e d’accordo la nostra
roba, mi dice: «Bene, e adesso dividiamoci anche il ragazzino».
80 Io pensavo volesse congedarsi con una battuta di spirito. Ma lui
sguaina la spada con mano fratricida e si mette a gridare: «Non te lo
godrai questo tesoro, su cui vorresti buttarti da solo. Bisogna proprio
che ci esca la mia parte, a costo di tagliarmela con questa spada, visto
il disprezzo in cui mi tieni!». Dall’altra parte io faccio lo stesso, mi
avvolgo il braccio col mantello e mi metto in guardia in attesa dello
scontro. Nel pieno di questo accesso di follia a due, quel poveraccio di
Gitone ci abbracciava in lacrime le ginocchia, implorandoci di non
trasformare quella locanda in una seconda Tebe e di non macchiare col
nostro sangue il sacro vincolo di un’amicizia tanto bella. «Ma se il morto
ci deve scappare comunque» urlava, «eccovi la mia gola: rivolgete qui le
vostre mani, infilateci dentro le spade fino all’elsa. Chi deve morire
sono io, perché ho distrutto il sacro vincolo dell’amicizia». Di fronte a
quelle suppliche rimettiamo a posto le spade, e il primo a parlare è
Ascilto: «Io voglio mettere fine alla lite: il ragazzo vada pure con chi
gli pare, perché sia libero di optare per chi vuole almeno nella scelta
del “fratellino”». Pensando che l’amicizia di lunga data tra me e Gitone
si fosse ormai trasformata in un legame di sangue, non ho nulla da temere,
anzi aderisco subito alla proposta con uno slancio rabbioso, lasciando che
a giudicare della lite sia il solo Gitone. Che non ci pensa su nemmeno un
attimo, tanto per far vedere di essere un po’ indeciso, e mentre io sono
ancora lì che devo finire l’ultima parola, lui si alza di scatto e si
sceglie Ascilto come fratellino. Fulminato da quella decisione, così
com’ero, senza nemmeno più la spada, cado sul letto, e mi sarei ammazzato
con le mie mani, non fosse stato per il trionfo del nemico. E così Ascilto
se ne va tutto ringalluzzito da quella preda, piantando lì su due piedi e
in un posto sconosciuto l’uomo che fino a poco prima era stato il suo
migliore amico nella buona e nella cattiva sorte.
La parola amicizia dura finché serve;
la pedina corre instabile sulla scacchiera.
Finché regge la fortuna, eccoti tutti amici;
ma quando crolla, è subito vergognosa fuga.
*
I guitti sono in scena alle prese con un mimo:
chi fa il padre, chi fa il figlio, chi la parte del riccone.
Ma quando sulla pagina il comico finisce,
torna la faccia vera e quella falsa muore.
*
81 Ad ogni modo, non me ne sto lì a piangere ancora per molto, ma per
paura che tra le altre disgrazie l’assistente Menelao mi trovi lì da solo
nella locanda, raccolgo i miei stracci e avvilito come sono prendo in
affitto un posticino fuori mano in riva al mare. Rimango lì barricato per
tre giorni e, assillato dal pensiero della solitudine e da quello
dell’affronto subito, mi percuotevo il petto, continuando a ripetermi, tra
gemiti disperati: «Ma perché la terra non mi ha voluto inghiottire? Perché
non mi ha risucchiato il mare che infierisce anche contro gli innocenti?
Sono forse sfuggito alla giustizia, ho scampato la sabbia del circo, ho
assassinato un ospite, per finire, dopo tante prove coraggiose, in una
pensioncina di una città greca, senza il becco di un quattrino, cacciato
dalla patria e abbandonato? E chi mi ha condannato a questo isolamento? Un
ragazzino rotto a ogni libidine, degno per sua stessa ammissione
dell’esilio, uno che a forza di concedersi è diventato libero e
rispettabile, uno che ha alle spalle una vita di marchette, e che faceva
la ragazzina anche con quelli che sapevano benissimo che era un maschio. E
dell’altro, che cosa dovrei dire? Che il giorno della toga virile si è
messo un vestito da donna, che già sua madre lo aveva persuaso di non
essere un uomo, che quand’era ai lavori forzati faceva la troia di tutti,
e che poi, soltanto per cambiare settore di schifezze, ha tradito il nome
di un’antica amicizia. Vergogna! Come la peggiore delle puttane, si è
venduto fino alle braghe per la fregola di un’unica notte. E nel
frattempo, quei due se la spassano abbracciati, e magari, stremati dal
piacere, se la ridono anche della mia solitudine. Ma non la passeranno
liscia. E non sarò più un uomo e libero per giunta, se non laverò nel loro
sangue l’affronto che hanno fatto al mio onore».
82 Al termine di questo sproloquio, mi cingo la spada al fianco e, per
evitare che la debolezza fisica comprometta l’esito della missione, mi
rimetto in forze con una bella abbuffata. Poi mi precipito fuori e, come
un pazzo, comincio a camminare su e giù sotto i portici. Ma mentre son lì
invasato a sognare stragi e massacri con gli occhi fuori della testa, e la
mia mano corre sempre più spesso alla spada destinata alla vendetta, mi
nota un tizio in uniforme, o barbone o tagliagole che fosse e mi fa:
«Altolà camerata! Di che legione sei o di quale centuria?». Siccome io mi
invento lì su due piedi i nomi del centurione e della legione, quello
ribatte: «E dimmi un po’, in questo tuo reggimento i soldati vanno in giro
coi sandali bianchi ai piedi?». Ma quando poi dalla mia faccia e dal mio
imbarazzo si capisce benissimo che ho mentito, il tipo mi intima di
consegnargli l’arma e di non mettermi nei pasticci. Disarmato e ormai
privo di ogni velleità di vendetta, me ne torno alla pensione e lì,
sbollita a poco a poco la rabbia, finisco per ringraziare la spudoratezza
di quel cialtrone.
*
Non beve in mezzo all’acqua, né coglie i frutti penduli
il povero Tantalo, anche se il desiderio lo rode.
Questa è la sorte del ricco, che sguazza nel troppo
di tutto e rumina a bocca asciutta la sua fame.
*
Mai fidarsi troppo di quel che si ha in animo di fare, perché la sorte ha
una sua logica.
*
83 Arrivo in una splendida pinacoteca piena di quadri di ogni tipo. Vedo
infatti opere di Zeusi non ancora intaccate dall’usura del tempo, e non
senza un brivido sfioro degli schizzi di Protogene che quanto a realismo
gareggiavano con la natura stessa. Inoltre contemplo di Apelle uno di
quelli che i Greci chiamano monocnémi. I contorni delle umane erano
tratteggiati con una naturalezza e una precisione tali che si sarebbe
potuto dire ci fossero dipinte dentro anche le anime. Da una parte
un’aquila rapiva Ganimede trascinandolo in cielo, dall’altra l’ingenuo Ila
respingeva una Naiade priva di ritegno, e Apollo imprecava contro le sue
mani colpevoli, mettendo sulla allentata lira un fiore appena sbocciato.
In mezzo a tutte quelle scene con al centro l’amore, salto su a dire, come
se fossi stato da solo in pieno deserto: «Ma allora l’amore colpisce anche
gli dèi! Siccome Giove non trovava in cielo quel che gli andava a genio,
se n’è sceso a peccare sulla terra, senza però far dei torti a nessuno. La
ninfa che rapì Ila avrebbe frenato la propria febbre d’amore, se solo
avesse saputo che Eracle sarebbe venuto a lamentarsi da lei. Apollo fa
rivivere in un fiore l’ombra del suo diletto. Anche tutti gli altri miti
del passato raccontano storie di amori non corrisposti. Io, invece, mi
sono andato a mettere con un socio più crudele di Licurgo».
Mentre son lì che me la prendo con l’aria, entra nella pinacoteca un
vecchio coi capelli tutti bianchi, la faccia tirata, e che sembrava
promettere chissà cosa, anche se i suoi vestiti non erano proprio
eleganti, che si capiva benissimo era uno di quegli intellettuali che ai
ricchi di solito non gli vanno giù. Il tipo si viene a fermare accanto a
me.
*
«Sono un poeta» mi dice, «e nemmeno, come mi auguro, da buttar via, per lo
meno se si deve credere ai premi letterari, che adesso c’è il vizio di
darli anche a cani e porci. “Ma allora” tu mi potresti chiedere “perché
vai in giro vestito a quel modo?”. Ma proprio per questo: la passione per
la cultura non ha mai reso ricco nessuno.
Chi al mare s’affida, di guadagni si riempie;
chi corre dietro guerre e battaglie, d’oro si cinge;
il vile adulatore se ne sta sdraiato ubriaco sulla porpora,
e chi attenta alle spose, trae profitto peccando.
I retori solo tremano in poveri panni,
e con voce debole invocano le arti abbandonate.
84 È senz’altro così: se uno, nemico di tutti i vizi, si mette a seguire
la retta via, lo guardano subito male proprio per questa sua differenza di
mentalità, perché non piace a nessuno la gente che non pensa come lui. E
poi, coloro che badano solo a fare soldi a palate, pretendono che al mondo
non ci sia niente di più prezioso di quello che possiedono. E così
perseguitano in tutti i modi possibili gli amanti delle lettere, perché
anche quelli diano l’impressione di essere inferiori al denaro.
*
Non so perché l’intelligenza debba sempre essere sorella della povertà.
*
Vorrei che chi avversa la mia sobrietà fosse tanto indulgente da potersi
commuovere. E invece quello lì è una canaglia incallita, che ne sa più dei
papponi in persona».
*
85 EUMOLPO. «Quand’ero militare in Asia agli ordini di un questore, mi
ospitò una famiglia di Pergamo. Siccome mi trovavo benissimo non solo per
la comodità dell’alloggio, ma anche perché il padrone di casa aveva un
figlio bellissimo, mi misi subito a escogitare il sistema per diventarne
l’amante senza che il padre se ne rendesse conto. Tutte le volte che a
tavola si faceva un accenno a certe esperienze omosessuali, io mi
infervoravo così tanto e chiedevo con una tale decisione di non offendere
le mie orecchie con sconcezze di quel tipo, che soprattutto la madre del
ragazzo mi guardava come un vero filosofo. Così cominciai ad accompagnarlo
io in palestra, ad organizzargli lo studio, a dargli qualche lezione, a
raccomandargli di non portarsi in casa qualche maniaco sessuale.
*
La sera di un giorno di festa, mentre ce la godevamo nel triclinio e una
protratta allegria ci aveva tolto la forza di ritirarci nelle nostre
camere, verso mezzanotte mi resi conto che il ragazzo era ancora sveglio.
E allora, con un filo di voce, feci questo voto: “O nostra Signora Venere,
se solo riesco a baciare questo ragazzo senza che se ne accorga, domani
gli regalo una coppia di colombe”. Ma il giovane, sentendo il prezzo che
ero disposto a pagare per quel tipo di piacere, cominciò a russare. Io
saltai subito addosso a quell’ipocrita e lo sommersi di baci. Soddisfatto
di questo inizio, la mattina mi alzai di buon’ora e comprai un bel paio di
colombe che, come lui si aspettava, gli portai, per tener fede al mio
voto.
86 Essendosi la notte successiva ripresentata l’occasione, cambiai
obiettivo e dissi tra me e me: “Se riesco a palparlo per bene senza che
lui se ne accorga, in cambio gli regalo due galli da combattimento”.
Sentendo questa promessa e, mi sa tanto, temendo che fossi io ad
addormentarmi, il ragazzino mi si avvicinò spontaneamente. Io allora mi
sbrigai a tranquillizzarlo e mi rimpinzai con tutto il suo corpo, senza
però arrivare al piacere supremo. Poi, alle prime luci del giorno, gli
portai con sua grande gioia quanto promesso. Quando anche la terza notte
vidi che c’era via libera, mi alzai e, mentre lui fingeva di dormire, gli
sussurrai in un orecchio: “O dèi immortali, se a questo angioletto
addormentato riesco a fargli il servizio completo, domani, in cambio di
questo piacere, gli regalo un bellissimo puledro macedone, a patto però
che non si accorga di nulla”. Il ragazzino dormì profondo come non gli era
mai successo. Così io prima mi riempii le mani coi suoi capezzoli al
latte, poi mi attaccai alle sue labbra in un bacio lunghissimo e alla fine
concentrai tutte le mie voglie in un unico punto. La mattina successiva,
lui se ne stava in camera, aspettando che come al solito io gli portassi
il mio regalo. Ma sai benissimo quanto più facile sia comprare colombe e
galli rispetto a un puledro, e in più avevo paura che un regalo di quelle
dimensioni potesse rendere sospetta la mia generosità. Così, dopo qualche
ora passata a zonzo, me ne tornai a casa e al ragazzino non gli diedi
altro che baci. Ma lui, guardandosi intorno mentre mi stringeva tra le
braccia, mi disse: “Signore mio, ma il cavallo dov’è?”.
*
87 Non avendo mantenuto la mia promessa, mi ero chiuso quella porta che io
stesso avevo aperto. Ciò nonostante ritornai alla carica. Pochi giorni
dopo, essendosi ripresentata un’altra occasione altrettanto propizia, non
appena mi resi conto che il padre stava russando, cominciai a scongiurare
il ragazzino che facesse la pace con me, che cioè continuasse a lasciarsi
soddisfare come prima, e aggiunsi tutte le altre frescacce che la foia più
matta suggerisce. Ma lui, ancora imbronciato con me, continuava a
ripetere: “O dormi, o chiamo mio padre!”. Ma non c’è nulla che sia così
difficile da non poterlo strappare a colpi di malizia. E mentre lui
continuava a ripetere: “Guarda che chiamo mio padre”, io gli scivolo nel
letto e lo possiedo di forza senza stare tanto a badare alle sue
resistenze. Ma lui, per niente contrariato dalla mia violenza, dopo
essersi a lungo lamentato dicendo che io l’avevo ingannato e che era
diventato lo zimbello dei suoi compagni di scuola coi quali si era fatto
bello della mia generosità, disse: “Ti farò vedere che non sono come te.
Se vuoi fa’ pure”. E così, lasciando da parte ogni motivo di rancore,
tornai nelle grazie del ragazzino e, dopo avere di nuovo approfittato
della sua compiacenza, scivolai nel sonno. Ma lui, che era nel pieno dello
sviluppo e in quell’età in cui si prova più gusto a farsi ingroppare, non
si accontentò del mio bis. Così mi venne a svegliare dicendomi: “Non vuoi
nient’altro?”. Anche se non del tutto, la sua generosità cominciava però a
pesarmi. Ad ogni modo, anche se col fiato corto e in un lago di sudore,
gli diedi quel che voleva, per poi ripiombare nel sonno, stremato dal
piacere. Non era passata nemmeno un’ora, che il ragazzino prese a darmi
dei pizzicotti dicendo: “Perché non lo rifacciamo?”. Ma io, seccato da
tutti quei risvegli forzati, saltai su tutte le furie e gli restituii le
sue stesse parole: “O dormi, o chiamo tuo padre”».
*
88 Sollevato da quel racconto, mi misi a interrogare quel vecchio
saggio…
sull’epoca dei quadri e su certi argomenti che non mi erano troppo chiari,
e insieme sulle cause della decadenza della nostra età e sul perché le più
belle arti fossero tanto in crisi, e in particolare la pittura di cui non
era rimasta nemmeno la traccia. E lui attacca: «La sete di denaro ha
portato a questo cambiamento. Nel buon tempo antico, la virtù la si
apprezzava di per se stessa, le arti liberali fiorivano e gli uomini
gareggiavano per evitare a tutti i costi che non rimanesse nell’ombra ciò
che avrebbe potuto giovare ai secoli a venire. Fu così che Democrito
distillò i succhi di tutte le erbe, e impiegò la vita intera a fare
esperimenti perché le proprietà di piante e minerali non rimanessero un
mistero. Eudosso, a sua volta, invecchiò sulla cima di una montagna
altissima per studiare il moto delle stelle e del cielo, mentre Crisippo,
perché la sua mente desse il meglio nelle invenzioni, la purificò per tre
volte con l’elleboro. Tornando però alle arti figurative, Lisippo morì di
inedia perché troppo preso a dare gli ultimi tocchi a una sua statua,
mentre Mirone, che riusciva quasi a trasfondere nel bronzo i sentimenti
degli umani e delle bestie, adesso è senza eredi. E noi invece, persi come
siamo tra crapule e battone, non riusciamo nemmeno ad apprezzare le opere
di un tempo, e ce la prendiamo con gli antichi, anche se poi siamo maestri
e discepoli di vizi. Dov’è finita la dialettica? E l’astronomia? Che fine
ha fatto quell’eccelsa via alla sapienza? Chi è mai più entrato in un
tempio facendo voti per diventare eloquente? Chi per attingere alla
sorgente della filosofia? Nessuno fa più voti perché il cielo ci conservi
la salute e ci dia la serenità interiore. Ma uno non ha ancora varcato la
soglia del Campidoglio, che subito promette un’offerta se potrà vedere
sottoterra un parente pieno di soldi, un altro se scopre un tesoro, e un
altro ancora se arriva a mettere insieme trenta milioni di sesterzi senza
incidenti. Addirittura il senato, che invece dovrebbe essere un esempio di
rettitudine e di giustizia, ha ormai preso l’abitudine di promettere mille
libbre d’oro al Campidoglio e, perché nessuno si faccia troppi scrupoli
sulla gran voglia di far soldi, corrompe pure il padreterno a suon di
bustarelle. Dunque non ti stupire se la pittura è bella che andata, quando
tutti – uomini e dèi compresi – preferiscono un bel malloppo d’oro
piuttosto che tutto quanto han fatto quei due pazzoidi di greci, Apelle e
Fidia.
89 Ma siccome ti vedo tutto concentrato su quel quadro con la presa di
Troia, cercherò di spiegartene il soggetto in versi:
Già la decima estate assediava i mesti e incerti Frigi
e il nero dubbio invadeva la fede del vate Calcante,
quando al responso di Apollo crollano recise le vette
dell’Ida, cadono i tronchi tagliati gli uni sugli altri,
e già danno forma a un cavallo minaccioso. Nel vasto fianco
si apre uno squarcio di caverna che dentro nasconde
uno stuolo agguerrito d’armati. Lì s’annida un valore infuriato da
un decennio di guerra, e i Danai stipati
si celano in quel dono votivo. O patria! Noi credemmo in fuga
le mille navi e libero il suolo patrio dalla guerra.
Questo trovammo inciso sulla bestia, questo affermò
Sinone pronto al destino, possente menzogna verso il baratro.
Sciama a frotte dalle porte la gente, a offrire voti
credendo finita la guerra. Rigano i volti le lacrime,
è un pianto di gioia che invade gli animi ancora in subbuglio.
Ma nuovo timore le caccia. Capelli sciolti al vento,
Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla,
vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro,
ma il volere dei numi gli fa debole il braccio,
e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno.
Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata
e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono
i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro
la mole di quercia palpita d’estranea angoscia.
Quei giovani presi andavano a prendere Troia,
finendo per sempre la guerra con frode inuaudita.
Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare,
i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde,
si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte,
quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte,
quando solca una flotta le acque del mare
che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie.
Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi,
che torcendosi spingono l’onda agli scogli,
e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi,
come alte navi. Il mare percuotono con le code,
le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi,
un bagliore di folgore incendia il mare
e le onde sono tutte un tremolio di fremiti.
Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende
e con addosso il costume frigio i due figli gemelli
di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto
li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma,
e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno
non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano,
finché morte li coglie in un mutuo terrore.
Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto,
che i due draghi già sazi di morte assalgono
e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote
tra le are e il suo corpo percuote la terra.
Così venne profanato il sacro e Troia
affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi.
Piena la luna già spandeva il suo candido raggio
guidando con luce raggiante gli astri minori,
quando dai chiusi recessi liberano i Danai i guerrieri
tra i Priamidi immersi nel sonno e nel vino.
Tutti i capi sono in armi già pronti alla strage,
come un cavallo tessalo che a briglia sciolta
scuote alta la testa e agita l’irta criniera
prima di darsi al galoppo. Sguainano le spade,
imbracciano saldi gli scudi e ovunque son pronti
all’assalto. Uno sgozza i nemici ancora immersi nel vino,
e dal sonno alla morte li invia, un altro accende
le torce alla fiamma degli altari,
e il dio di Troia contro Troia invoca».
90 Alcuni di quelli che passeggiavano sotto i portici cominciarono a
prendere a pietrate Eumolpo che stava declamando. Ma lui, che doveva
essere abituato a quel tipo di applausi rivolti alle sue tirate, si riparò
la testa e sgattaiolò fuori dal tempio. Quanto al sottoscritto, tremai al
pensiero di essere preso anch’io per un poeta. E così, seguendolo nella
fuga, arrivai alla spiaggia, e non appena ci trovammo fuori dalla portata
delle sassate, gli gridai: «Ehi, ma cosa diamine ti sei messo in testa con
questa mania? Siamo insieme da meno di due ore e invece di parlare da
persona normale continui a recitare versi. Non mi stupisco davvero se la
gente ti prende a sassate! Anzi, bisogna che mi faccia anch’io una bella
scorta di pietre, così, ogni volta che attacchi a dar fuori di matto, ti
faccio uscire pure io un po’ di sangue dalla testa». Lui scuote la testa e
mi fa: «Caro il mio giovanotto, non crederai mica che oggi sia stato il
mio debutto? No, e tutte le volte che salgo su un palcoscenico per
declamare qualcosa, la gente mi riserva sempre un trattamento del genere.
Ma dato che non ho alcuna intenzione di mettermi a litigare anche con te,
ti prometto che oggi ne farò a meno per tutto il giorno». «Benissimo: se
oggi la pianti con la tua fissazione» faccio io, «allora ce ne andiamo a
mangiare insieme».
*
Perciò ordino alla proprietaria della locanda di prepararci una bella
cenetta…
*
91 Vedo Gitone appoggiato al muro, con in mano spazzole e asciugamani e
l’aria triste e frastornata. Era evidente che vivere in servitù non gli
andava granché a genio. E così, per verificare che la vista non mi stesse
ingannando…
Quello si volge verso di me, col viso illuminato dalla gioia e mi dice:
«Pietà, fratello. Ora che non ci sono armi in giro, posso parlare senza
remore. Puniscimi come preferisci, ma liberami da quel criminale
sanguinario: nella mia miseria, sarà per me una bella consolazione morire
per mano tua». Io gli ordino di piantarla con quella lagna, per non render
noti i fatti nostri alla gente e, dopo essermi sganciato da Eumolpo che,
nel frattempo, si era messo a declamare carmi nel bagno, trascino via
Gitone attraverso una viuzza sudicia e buia e filo dritto alla mia
stamberga. E lì, dopo aver sprangato la porta, lo soffoco a forza di
abbracci e col volto cancello dal suo viso le lacrime. Per un bel po’ non
fiatammo né l’uno né l’altro, anche perché il petto del ragazzino era
squassato da gemiti senza tregua. «È un’indegna vergogna!» esclamai alla
fine «Che io ti ami anche dopo che mi hai piantato, che nel mio cuore non
ci sia più traccia di cicatrici, là dove prima c’era una ferita tanto
profonda! Come puoi giustificare l’esserti dato a un altro? Mi meritavo un
trattamento simile?». Quando si rese conto che io ero ancora preso di lui,
inarcò le sopracciglia ancora più sorpreso…
*
«E pensare che avevo rimesso a te come unico giudice la decisione d’amore!
Ma non mi lamento più di niente, non mi ricordo più di niente, se adesso
sei disposto a rimediare alla tua colpa con un affetto sincero». E dopo
aver pronunciato quelle parole in un profluvio di gemiti e lacrime, lui mi
asciugò la faccia col mantello e disse: «Encolpio, mi affido alla tua
memoria: sono io che ti ho piantato, oppure sei stato tu a tradirmi? Per
quanto mi riguarda, ammetto in tutta sincerità che, quando ho visto due
uomini armati, mi sono messo con quello più forte». Baciando di nuovo
quella testina che ragionava in maniera tanto assennata, gliela presi tra
le mani, e per fargli capire ch’era rientrato nelle mie grazie e che la
nostra amicizia era tornata quella di una volta, me lo strinsi forte al
petto.
92 Era già notte fonda e la padrona ci aveva preparato la cena come
richiesto, quando Eumolpo bussò alla porta. «Quanti siete?» domandai io,
correndo a sbirciare dal buco della serratura per accertarmi se c’era
anche Ascilto. Ma quando vidi che il mio ospite era da solo, lo feci
subito entrare. Quello si lasciò cadere sul mio letto. Scorgendo però
Gitone impegnato ad apparecchiare, esclamò: «Gran bel pezzo di Ganimede!
Qui stasera si folleggia». Questa curiosa uscita non mi andò giù per
niente e cominciai a temere di essermi trascinato in casa uno simile ad
Ascilto. Ma Eumolpo insisteva e, mentre il ragazzo gli porgeva da bere,
gli disse: «Meglio te che tutti quelli del bagno messi insieme». Dopo
essersi scolato il bicchiere tutto d’un fiato, ci confessò che non gli era
mai capitato di peggio. «Mentre mi stavo lavando» disse lui, «per poco non
mi prendevano a sprangate perché mi ero messo a declamare una poesia a
quelli seduti sul bordo della vasca. Dopo esser stato scacciato dal bagno
come se fossi stato a teatro, cominciai a girare in lungo e in largo e a
chiamare a gran voce “Encolpio!”. Ma dalla parte opposta vidi venire verso
di me un giovane senza niente addosso (i vestiti li aveva persi), che
gridava con lo stesso tono di voce arrabbiata “Gitone!”. E mentre a me dei
ragazzini facevano malamente il verso come se fossi stato fuori di testa,
quello invece venne circondato da una enorme folla che gli batteva le mani
con grande rispetto e ammirazione. Il fatto è che il tizio aveva tra le
gambe un arnese talmente grosso che lui, dico l’uomo, sembrava una
semplice appendice del suo membro. Che giovanotto in gamba! Mi sa che
quello attaccava la sera e finiva la mattina. E infatti trovò subito chi
gli diede una mano. Infatti, un tale non meglio identificato, un cavaliere
romano (a quanto pare non uno stinco di santo), gli buttò addossso il
mantello e se lo portò a casa per godersi, credo, da solo tutto quel ben
di dio. Io, invece, non sarei riuscito nemmeno farmi ridare i vestiti dal
guardaroba, se non avessi trovato un testimone. Com’è vero che al mondo è
meglio lavorare d’uccello che non di cervello». Mentre Eumolpo raccontava
questa storia, io continuavo a cambiare espressione, divertendomi un mondo
per le disgrazie del mio avversario e rattristandomi di fronte ai suoi
successi. Ad ogni modo me ne stetti zitto, fingendo di non sapere nulla di
quella faccenda e ordinai che ci portassero la cena.
*
93 «Ciò che è alla portata di tutti non vale granché, e l’animo, portato
com’è all’errore, finisce col preferire le ingiustizie.
Il fagiano importato dalla Colchide
e le galline d’Africa piacciono al nostro palato,
perché li trovi di rado. L’oca bianca invece
e l’anatra dalle penne screziate
hanno sapore plebeo. Uno scaro giunto
da spiagge lontane e i pesci che ci offre la Sirte,
se in più c’è di mezzo un naufragio, ci sono graditi.
Stufa invece la triglia. Vale più della moglie
l’amante, cede la rosa alla cannella.
Sempre pare migliore ciò che tocca cercare».
«È così» salto su io «che mantieni la promessa di non metterti a comporre
versi per tutta la giornata di oggi? Che diamine, noi potresti anche
risparmiarci, visto che non ti abbiamo ancora preso a sassate. Perché mi
sa che, se qualcuno di quelli che stanno sbevazzando in questa taverna
sente puzza di poeta in giro, tira giù dai letti tutto il vicinato e
finisce che ci accoppa dal primo all’ultimo! Abbi quindi un po’ di
compassione e ricordati di quello che ti è successo alla pinacoteca e al
bagno». Ma Gitone, buono dentro com’era, mi rimproverò per quelle parole e
mi disse che non era affatto bello agire così, cioè mancare di rispetto a
una persona più anziana e nel contempo di dimenticarsi dei doveri di
ospitalità, offendendo Eumolpo dopo esser stato tanto gentile da invitarlo
a cena. A questi rilievi ne aggiunse poi anche parecchi altri, ma detti
con quella garbata moderazione che tanto si addicevano alla sua grazia.
*
94 EUMOLPO A GITONE. «Beata la mamma tua che ti ha fatto così: onore al
merito! Non succede spesso che la saggezza sia unita alla bellezza. Perché
tu non debba pensare di aver sprecato il fiato, sappi che in me hai
trovato uno che ti vuole bene. Io riempirò le mie poesie con le tue lodi,
e sarò tuo maestro e tua guardia del corpo, anche se non lo vorrai. E poi
a Encolpio non gli faccio mica un torto: è innamorato di un altro, lui».
Encolpio poteva ringraziare quel soldato che mi aveva portato via la
spada, perché altrimenti tutta la mia rabbia contro Ascilto l’avrei
scaricata sul suo sangue. Il che non sfuggì a Gitone che uscì dalla camera
col pretesto di andarsi a prendere un bicchier d’acqua, e così, durante
questa sua assenza strategica, la rabbia mi sbollì a poco a poco. E quando
i nervi mi si distesero un pochino, gli dissi: «Ascolta, Eumolpo,
preferisco che tu ti metta a snocciolare versi, piuttosto che farti venire
certe idee. E poi, se tu sei uno che si infoia, io sono un collerico: lo
vedi benissimo, caratteri del genere non possono legare. Fa’ quindi conto
che io sia pazzo, cedi alla mia follia, cioè togliti immediatamente dai
piedi». Sconcertato da questa dichiarazione, Eumolpo, senza indagare sui
motivi della mia scenata, con un balzo raggiunse l’ingresso, si tirò
dietro la porta e, senza che io me ne rendessi conto, me la chiuse in
faccia, portandosi via la chiave per correre a cercare Gitone.
Intrappolato lì dentro, decisi di farla finita impiccandomi al soffitto.
Avevo già legato la cintura alla sponda del letto appoggiato alla parete e
stavo già per infilare la testa dentro il cappio, quando la porta si
spalancò ed entrarono Eumolpo e Gitone che mi riportarono alla luce della
vita impedendomi di compiere quel passo fatale. Soprattutto Gitone che,
passando dal dolore alla rabbia in un crescendo isterico, mi afferò con
entrambe le mani scaraventandomi sul letto: «Ti sbagli di grosso» esclamò,
«se credi di potertene morire prima di me: ci ho pensato prima io.
Quand’ero in camera di Ascilto, ho cercato di procurarmi una spada, e se
non ti avessi trovato mi sarei ucciso buttandomi in qualche burrone. E
perché tu possa renderti conto che la morte non gira alla larga di quelli
che la cercano, sta’ a vedere quel che tu volevi far vedere a me». Detto
fatto, strappa un rasoio dalle mani del servo di Eumolpo e, dopo essersi
assestato un paio di colpi alla gola, crolla a terra ai nostri piedi. Io
caccio un urlo di terrore e, buttandomi su di lui, cerco di togliermi
anch’io la vita con quello stesso arnese. Ma se Gitone non si era fatto
manco un graffio, io non avevo male in nessun punto. E infatti,
nell’astuccio c’era un rasoio spuntato e privo di filo, come quelli che
usano i garzoni dei barbieri per farsi la mano. Ecco perché il servo se
l’era lasciato prendere senza fare una piega, ed Eumolpo non aveva
interrotto quel suicidio farsa.
95 Mentre era in corso questa sceneggiata da innamorati, entrò
l’albergatore con una portata della cena e, vedendoci nel pieno di
quell’avvitamento sfrontato di corpi sul pavimento, disse: «Ma vi prego:
siete ubriachi, evasi, o tutte e due le cose insieme? Chi è che ha tirato
su quel letto e che cosa significano tutti questi armeggi furtivi? Ci
scommetterei che volevate svignarvela nel cuore della notte senza pagarmi
la stanza! Ma non la passerete liscia, perché vi farò vedere io che questa
pensione è di Marco Mannicio, e non di una vedova». «Anche le minacce,
adesso?» saltò su Eumolpo, assestandogli un sonoro ceffone sulla faccia.
Ma quello, che a forza di bicchierini scolati coi clienti era un po’
andato, scaraventa un orcio di argilla sulla testa di Eumolpo, gliela
spacca facendolo urlare dal dolore e quindi se la fila. Imbestialito da
quell’affronto, Eumolpo afferra un candelabro di legno e si butta
all’inseguimento, vendicandosi del sopracciglio a suon di legnate.
Accorrono in massa i servi e i clienti ubriachi. Io allora, cogliendo la
palla al balzo per prendermi la rivincita su Eumolpo, lo chiudo fuori
rendendogli così pan per focaccia, e mi preparo a godermi la camera e la
notte senza più rivali.
Intanto i cuochi e i pensionanti se la prendono con quel disgraziato
rimasto chiuso fuori: c’è chi gli vuole ficcare in un occhio uno spiedo
ancora pieno di frattaglie sfrigolanti, e c’è chi invece gli si fa sotto
minaccioso brandendo un gancio da macellaio. Più di tutti una vecchia
cisposa, con addosso un grembiule sudicio e ai piedi due zoccoli spaiati,
si fa avanti trascinando un enorme cane legato alla catena e lo aizza
contro Eumolpo che, nel frattempo, si difende da tutti quegli assalti
impugnando il candelabro.
96 Noi ci godevamo tutto lo spettacolo guardando attraverso il buco che si
era aperto poco prima nella porta quando era saltata via la maniglia, e io
gioivo al vedere Eumolpo che ne prendeva un sacco e una sporta. Gitone
però, pietoso com’era sempre, sosteneva che avremmo dovuto aprire la porta
e intervenire in suo aiuto. Ma io, che dentro ero ancora arrabbiato nero,
non riuscii più a frenare la mano e gli rifilai un bel colpo in testa a
pugno chiuso. Lui scoppiò a piangere e si andò a buttare sul letto. Io
invece, dopo essermi rimesso a sbirciare dal buco prima con un occhio, poi
con l’altro, mi stavo godendo le mazzate assestate a Eumolpo come se
fossero state dei manicaretti e gli consigliavo di scegliersi un avvocato,
quand’ecco che Bargate, amministratore dello stabile avvertito nel pieno
della cena, fece il suo ingresso in lettiga proprio nel bel mezzo di quel
putiferio. Quello, che in più ci aveva anche la gotta, dopo aver investito
con voce cavernosa e piena di rabbia gli ubriachi e gli evasi, scorgendo
Eumolpo gli disse: «O sommo tra tutti i poeti, eri tu? Ma cosa aspettano a
togliersi di torno questi schiavi fottuti e a piantarla con la rissa?».
*
[L’AMMINISTRATORE BARGATE A EUMOLPO] «La mia compagna ha alzato la cresta.
Perciò, se mi vuoi bene, vedi di darle un po’ addosso coi tuoi versi, che
si esalti un po’ meno».
*
97 Mentre Eumolpo e Bargate se ne stavano a confabulare in disparte, entrò
nella locanda un banditore accompagnato da un pubblico ufficiale e da un
modesto codazzo di gente e, sventagliando una torcia che faceva più fumo
che luce, proclamò: «Poco fa si è smarrito nei bagni un ragazzo di circa
sedici anni, ricciolino, delicato, bello, di nome Gitone. Chi volesse
riportarlo o fornire indicazioni per rintracciarlo riceverà mille sesterzi
di ricompensa». A due passi dal banditore c’era Ascilto intabarrato in una
veste variopinta e con in mano un vassoio d’argento sul quale aveva in
bella mostra il denaro. Ordinai a Gitone di buttarsi subito sotto il letto
e di aggrapparsi mani e piedi alle cinghie che reggevano il materasso,
convinto che così appeso al letto sarebbe sfuggito anche se avessero
frugato per bene là sotto, un po’ come in passato Ulisse era riuscito a
sfuggire al Ciclope attaccandosi al ventre di un montone. Gitone non se lo
fece ripetere e in un secondo si abbrancò alle cinghie, superando in
astuzia lo stesso Ulisse. Per non dare adito a sospetti, riempii il letto
di vestiti, creando l’impronta di un unico corpo su per giù della mia
stazza.
Nel frattempo Ascilto, dopo aver passato in rassegna con il messo tutte le
stanze, giunse di fronte alla mia e, quando vide che era sprangata per
bene, cominciò a essere assai speranzoso. L’usciere fece saltare la
serratura infilando una scure tra i battenti. Io allora mi buttai ai piedi
di Ascilto e, in nome dell’amicizia di un tempo e delle disgrazie patite
insieme, lo supplicai di farmi almeno vedere il fratellino. Anzi, per
rendere le mie false suppliche ancora più efficaci, gli dissi: «Lo so
benissimo, Ascilto, che sei venuto qui per uccidermi. Se no perché mai
avresti portato le scuri? Sfoga dunque la tua rabbia: eccoti la mia testa,
spargi pure il mio sangue, visto che è questo che volevi con la scusa
della perquisizione». Ascilto questa accusa la respinge e assicura di
essere solo sulle tracce del ragazzino sfuggitogli e di non avere alcuna
intenzione di ammazzare un uomo, e tanto più uno che lo stava supplicando
e a cui era ancora attaccatissimo nonostante quella tremenda litigata.
98 Ma il messo non fa troppo i complimenti e, prendendo un bastone dalle
mani dell’albergatore, lo infila sotto il letto, passando in rassegna
anche i buchi nella parete. Gitone cercava nel frattempo di schivare i
colpi e tratteneva il respiro, tutto intimorito, e con ormai la faccia tra
gli insetti del materasso.
*
Ma siccome la porta scardinata della stanza non era più un ostacolo per
nessuno, ecco Eumolpo catapultarsi dentro eccitato come non mai. «I mille
sesterzi me li becco io» dice trillante. «Adesso raggiungo il messo che
sta già allontanandosi e gli spiffero che Gitone è qui con te, così mi
prendo la più meritata delle rivincite». Io mi butto ai suoi piedi e,
nonostante continuasse a insistere con quell’idea, lo imploro di non
uccidere un uomo morto. «Se solo Gitone fosse qui» spiego io, «avresti
ragione a dare in escandescenze, ma il tipetto se l’è squagliata in mezzo
a tutto questo can can, e non riesco nemmeno a immaginare dove sia andato
a nascondersi. Te ne prego, Eumolpo, riportalo qua, e poi riconsegnalo
pure ad Ascilto». E quando ero ormai quasi riuscito a convincerlo, Gitone,
non riuscendo più a trattenere il fiato da tanto era pieno, starnutì tre
volte di seguito in maniera così violenta da far tremare il letto. A quel
mezzo finimondo Eumolpo si volta e dice a Gitone «Salute!». Poi, dopo aver
tirato via anche il materasso, ci scopre sotto un Ulisse contro il quale
non avrebbe infierito nemmeno un Ciclope affamato. E, voltandosi di scatto
verso di me, mi fa: «E questo cos’è, pezzo di canaglia? Non hai il
coraggio di ammettere la verità nemmeno quando ti si coglie in flagrante!
Ma che dico? Se una qualche divinità, arbitra delle cose umane, non avesse
costretto questo ragazzo a indicare la propria presenza con un segno,
adesso io sarei in giro per bettole a dargli la caccia come un cretino».
*
Gitone, che era molto più disponibile di me, gli tamponò la ferita al
sopracciglio con delle ragnatele intinte nell’olio. Poi, dopo avergli dato
il proprio mantello in cambio dei suoi stracci laceri, quando lo vide un
po’ più tranquillo, gli buttò le braccia al collo e coprendolo di baci gli
disse: «Caro paparino, siamo nelle tue mani – ti rendi conto? -, nelle tue
mani. Se vuoi bene al tuo Gitone, comincia a pensare a come salvarlo.
Vorrei che a bruciare nel fuoco impietoso fossi io solo, io solo a essere
travolto dalla furia del mare in inverno! Perché io solo sono la causa e
l’origine prima di tante sventure. Se almeno morissi, tra i nemici
tornerebbe la pace».
*
99 EUMOLPO. «Sempre e dovunque io ho vissuto godendomi ogni giorno
presente come se fosse l’ultimo e destinato a non tornare mai più».
*
In un mare di lacrime, lo prego e lo scongiuro di fare la pace anche con
me, perché quando si ama alla gelosia non c’è freno. Per altro gli
prometto di non dire e non fare più nulla che potesse dargli fastidio. A
patto però che lui, da maestro di nobili discipline qual era, cancellasse
dall’animo suo ogni traccia di rancore. «Nei luoghi incolti e selvaggi la
neve dura più a lungo, ma dove invece la terra risplende domata
dall’aratro, la brina leggera si scioglie mentre parli. Stessa cosa fa
l’ira che alberga nei nostri cuori: dura tenace nelle menti rozze, non si
sofferma su quelle raffinate». «Perché tu sappia com’è vero quel che dici»
replicò Eumolpo, «eccoti qua un bacio col quale metto fine alla collera. E
ora, che il cielo ce la mandi buona, fate su le valigie e seguitemi o, se
preferite, andate avanti voi». Non aveva ancora finito di parlare, che la
porta venne spalancata con una spallata e comparve sulla soglia un
marinaio con un barbone ispido sulla faccia. «Guarda, Eumolpo, che sei in
ritardo» gli disse, «come se non sapessi la fretta che abbiamo». Allora ci
alzammo tutti senza perdere un minuto di più, ed Eumolpo diede ordine al
suo servo, che nel mentre si era appisolato, di incamminarsi con il
bagaglio. Quanto a me, dopo aver sistemato insieme a Gitone i nostri
straccetti in una sacca di pelle, raccomando l’anima alle stelle e salgo a
bordo. |[continua]|
*
|[SATIRICON, 4]|
100 «Certo che è una bella seccatura che il ragazzino piaccia a un
estraneo. Ma non appartiene a tutti ciò che di più bello ha fatto la
natura? Il sole risplende per tutti e la luna, insieme a tutte le altre
stelle infinite, guida anche le bestie al pascolo. Cosa c’è di più
prezioso dell’acqua? Eppure scorre per tutti. Possibile che unicamente
l’amore sia un furto invece che una ricompensa? Niente affatto: io un bene
che la gente non mi invidia non ce lo voglio mica avere. Un solo
individuo, e per di più avanti negli anni, non mi preoccupa più di tanto.
E se poi anche volesse prendere delle iniziative, gli verrebbero a mancare
le energie». Dopo aver stabilito questi
principi fondamentali ed essermi preso un po’ in giro pur non credendoci
granché, cominciai a far finta di dormire tutto imbacuccato nel cappuccio.
Ma all’improvviso, come se la Fortuna avesse voluto sbriciolare tutta la
mia sicurezza, mi arrivò da poppa lì in coperta il lamento di una voce che
diceva: «Allora mi ha preso per i fondelli?». La voce che mi fece
sobbalzare era quella di un uomo, e per le mie orecchie aveva qualcosa di
familiare. Come se ciò non bastasse, anche una voce di donna, pure lei
imbestialita, echeggiò ancora più infervorata: «Se solo un dio mi mettesse
tra le mani Gitone, glielo darei io un bel benvenuto a quel cialtrone!».
Di fronte a quel suono a sorpresa, sia io che Gitone rimanemmo senza fiato
col sangue che ci si gelava nelle vene. Soprattutto io, come se avessi
avuto un incubo allucinante, dopo un attimo di sconcerto provai a
raccogliere la voce e, tastando con il tremolio alle mani la veste di
Eumolpo che era già mezzo assopito, gli dissi: «Santo dio, paparino, sai
di chi è questa nave e chi sono i passeggeri?». Ma lui, seccatissimo, la
prende male e replica: «È per non lasciarmi riposare in pace che hai
voluto ci andassimo a imboscare nel punto più appartato della nave? Che
importanza vuoi che abbia, quando ti ho detto che la nave è di Lica, un
tipo di Taranto, e che porta a Taranto Trifena, un’esule?».
101 Fulminato da quella notizia, mi misi a tremare tutto e, tirando fuori
la testa dal cappuccio, dissi: «Questa volta, o Fortuna, mi hai proprio
annientato». Gitone rimase invece a lungo con la testa appoggiata sul mio
petto, come se fosse sul punto di rendere la bell’anima a dio. Quando poi
un sudore copioso ci richiamò entrambi alla vita, io mi buttai ai piedi di
Eumolpo e gli dissi: «Abbi pietà di due cadaveri annunciati e, non fosse
altro per la comune passione che abbiamo per le lettere, dammi una mano:
siamo spacciati e, se la morte deve avvenire tramite tuo, finisce che è
pure un beneficio». Sbalordito di fronte a questa antipatica insinuazione,
Eumolpo giura su tutti gli dèi e le dee di non essere al corrente di
nulla, di non averci voluto tendere alcun tipo di tranello, ma di averci
fatti salire con le migliori intenzioni e in tutta buona fede su quella
nave, dove già fin da prima aveva deciso di imbarcarsi. «Ma di che razza
di pericoli parlate» esclamò poi, «e chi è questo Annibale che viaggerebbe
con noi? Lica di Taranto, uomo assolutamente a posto, non è soltanto il
comandante e il proprietario di questa nave, ma ha anche parecchi terreni
e un’impresa di spedizioni, e ora sta trasportando un carico al mercato. È
questo il Ciclope e il pirata con patente cui noi dobbiamo il passaggio.
Oltre a lui c’è poi Trifena, una delle donne più belle del mondo, che
naviga per suo piacere un po’ qua un po’ là». «Ma è proprio da questi due
che noi vogliamo scappare», rispose Gitone e tutto d’un fiato spiegò ad
Eumolpo che lo ascoltava trepidante le ragioni del loro odio e il pericolo
che incombeva sulle nostre teste. Ma lui, in preda alla confusione e a
corto di idee com’era, suggerì che ciascuno di noi dicesse la sua. «Fate
finta» aggiunse «che siamo finiti nell’antro del Ciclope. A meno di
buttarci in mare e liberarci così di tutti i nostri guai, bisogna pure che
troviamo una via d’uscita». «Potresti invece» intervenne Gitone
«convincere il pilota a fare scalo in qualche porto – ovviamente gli
pagheremmo il favore -, magari raccontandogli che tuo fratello non resiste
al mal di mare ed è agli sgoccioli ormai. Riuscirai a rifilargli questa
frottola se mostri un viso afflitto e ti vengono le lacrime agli occhi, in
modo che il pilota si lasci prendere dalla compassione e ti accontenti».
Ma Eumolpo disse che una cosa del genere non era nemmeno pensabile,
«perché le navi di grossa stazza» spiegò «non possono entrare nei porti
piccoli, e perché alla storia del fratello che sta per andarsene lì su due
piedi è difficile che ci si creda. Metti poi che Lica, per puro dovere
d’ufficio, voglia dare un’occhiata al moribondo. In tal caso, sarebbe
davvero un bel guadagno far venire qui il comandante proprio mentre
tentiamo di svignarcela. Ammesso e concesso poi che la nave possa cambiare
rotta deviando nel corso di un viaggio tanto lungo e che Lica non vada a
ispezionare l’infermeria, come pensi di poter lasciare la nave senza esser
visti da tutti? Con la testa coperta, o forse scoperta? Uscendo con la
testa coperta, chi non vorrebbe dare una mano a dei sofferenti? Optare
invece per la testa nuda, cos’altro sarebbe se non denunciarci da soli?».
102 «E perché» intervenni io, «non rischiare il tutto per tutto? Potremmo
calarci con una fune in una scialuppa e, dopo aver tagliato la cima,
affidarci in toto alla Fortuna. Ovvio però che Eumolpo in un rischio del
genere non lo coinvolgiamo. Che senso avrebbe infatti esporre un innocente
a un pericolo che riguarda altri? Sarei già contento se il caso ci
assistesse mentre ci caliamo con la fune». «Come piano non sarebbe male»
osservò Eumolpo, «se solo lo si potesse mettere in pratica. Ma come
riusciremo a svignarcela senza che nessuno si accorga di noi? Per lo meno
il timoniere, visto che sta su tutta la notte e sorveglia perfino i
movimenti delle stelle. Ad ogni modo, riusciremmo a fregarlo caso mai
stesse dormendo, ma bisognerebbe tentare la fuga in un altro punto della
nave. Solo che bisogna calarsi da poppa, dove c’è il timone, perché è
proprio di lì che pende il cavo che tiene la scialuppa. E poi mi
meraviglio, Encolpio, di come non ti sia venuto in mente che sulla barca
c’è sempre un marinaio di guardia, giorno e notte, e che non è possibile
liberarsene se non eliminandolo fisicamente o scaraventandolo fuori bordo
con la forza. Ma voi avreste il fegato per farlo? Per quel che poi
concerne la mia partecipazione alla cosa, io non mi tiro indietro di
fronte ad alcun pericolo, a patto però che ci sia una qualche speranza di
riuscita. E infatti credo che nemmeno voi abbiate intenzione di buttarvi
allo sbaraglio rischiando la vita per niente. Sentite un po’, invece,
questa mia idea: io vi metto in due sacchi di pelle, li lego con cinghie e
li metto tra i miei bagagli, lasciandone, è ovvio, un po’ aperte le
estremità perché possiate respirare e mangiare qualcosa. Poi, nel cuore
della notte, mi metto a gridare che i miei due servi, per paura di chissà
quale tremenda punizione, si sono buttati in mare. Una volta arrivati in
porto, io vi scarico come se foste dei miei bagagli e senza che nessuno se
ne accorga». «Sicché» faccio io «ci vorresti impacchettare come se non
avessimo buchi e non ci venisse mai il mal di pancia? O come gente che non
ha l’abitudine di starnutire o russare? Oppure perché un giochetto del
genere è andato bene in un’altra occasione? Ma metti pure che noi si
riesca a resistere per un’intera giornata legati in quella maniera: come
andrebbe a finire se la bonaccia o una tempesta ci trattenessero in mare
più a lungo? Che cosa potremmo fare? Anche i vestiti, a forza di stare
schiacciati, finisce che fanno le pieghe, e i fogli di carta si deformano
se li si lega troppo stretti. E poi, dei giovani come noi, non abituati
agli strapazzi, credi che potrebbero resistere legati e impacchettati come
statue?…
*
Niente da fare. Bisogna trovare un’altra via d’uscita. State un po’ a
sentire la mia di idea. Eumolpo, da buon letterato qual è, ha sicuramente
dell’inchiostro con sé. Possiamo servircene e tingerci la pelle dalla
testa ai piedi. Prendendoci così per degli schiavi etiopi ai tuoi ordini,
riusciremo a evitare allegramente ogni pericolo senza l’incubo di torture,
e col diverso colore della pelle la faremo in barba ai nostri avversari».
«Ma perché allora» interviene Gitone «non ci circoncidi pure, per farci
sembrare dei Giudei, o non ci fai i buchi alle orecchie che ci scambino
per Arabi, o non ci spalmi la faccia di gesso così che in Gallia ci
prendano per concittadini? Come se solo un po’ di colore bastasse a
cambiarci i connotati, e non ci fosse bisogno di tutta una serie di
accorgimenti perché il giochetto funzioni. Mettiamo pure che la tintura
sulla faccia possa resistere a lungo. E supponiamo anche che qualche
spruzzo d’acqua non ci riempia la pelle di macchie, o che i vestiti non si
attacchino all’inchiostro (cosa questa possibilissima, anche nei casi in
cui non c’è la colla), ma con le labbra come la mettiamo? Non possiamo
mica deformarle gonfiandole in quell’orrenda maniera. E i capelli? Li
arricciamo col ferro caldo? E la fronte? Ce la riempiamo di cicatrici
apposta? E le gambe? Le facciamo diventare arcuate? Ci mettiamo a
camminare coi piedi piatti? E la barba? Ce la facciamo crescere come
quelli là in Etiopia? La tintura artefatta ti sporca il corpo, ma non te
lo cambia. Sentite un po’ che cosa mi suggerisce la paura: tiriamoci i
vestiti sulla testa e buttiamoci in mare».
103 «Che gli dèi e gli uomini» esclamò Eumolpo, «non vi permettano di
finire così male! Fate piuttosto come dico io: il mio servo, come avete
notato dal rasoio, sa fare il barbiere: vi raderà in un attimo non solo la
testa ma anche le sopracciglia. Poi intervengo io e vi imprimo sulla
fronte una bella scritta come si deve, perché passiate per dei bollati a
fuoco. Così sarà proprio quella scritta a sviare i sospetti di chi vi sta
braccando: il marchio nasconderà i vostri veri lineamenti».
Non perdemmo tempo a mettere in atto il nostro piano: dopo aver raggiunto
di nascosto un angolo della nave, offrimmo testa e sopracciglia al
barbiere che ce le radesse. Eumolpo, dal canto suo, ci tappezzò la fronte
di lettere cubitali, disegnandoci, senza troppe economie, su tutta la
faccia la ben nota sigla degli schiavi fuggiaschi. Ma per puro caso, uno
dei passeggeri che era lì appoggiato al parapetto per liberarsi lo stomaco
in balia del mal di mare, vedendo al chiaro di luna il barbiere in piena
attività a quell’ora tanto insolita, inveendo contro quel presagio in
tutto simile al voto estremo che di solito fanno i naufraghi, se ne tornò
in fretta e furia alla sua cuccetta. E noi, fingendo di non dare alcun
peso alle bestemmie di quel tipo alle prese con la nausea, ripiombammo
nell’angoscia di prima e quindi, accovacciandoci in silenzio, trascorremmo
il resto della notte in un inquieto dormiveglia.
*
104 LICA. «Mentre dormivo, mi è sembrato che Priapo mi dicesse: “Visto che
stai cercando Encolpio, sappi che è stato da me condotto sulla tua nave”».
Trifena rabbrividì e poi disse: «Manco avessimo dormito insieme! Perché
anche a me è sembrato che la statua di Nettuno, da me vista nel tempio di
Baia, mi dicesse: “Sulla nave di Lica ritroverai Gitone”». «Questo ti
dimostra chiaramente» replicò Eumolpo, «che uomo di genio sia Epicuro, là
dove mette così argutamente in ridicolo le superstizioni di questo tipo».
Ma dopo aver fatto i debiti scongiuri a seguito del sogno di Trifena, Lica
osservò: «E chi ci vieta di dare un’occhiata in giro per la nave? Così,
giusto per far vedere che non ce ne infischiamo dei segni del cielo».
Quel tipo che nel cuore della notte ci aveva disgraziatamente sorpresi nel
pieno dei nostri maneggi, un certo Eso, saltò subito su e disse: «Ma
allora chi sono quei due che stanotte davano un pessimo esempio, facendosi
radere al chiaro di luna? Perché ho sentito dire che nessun mortale
dovrebbe, nel corso di una traversata, tagliarsi unghie e capelli, a meno
che non infuri la tempesta».
105 «Cosa?» saltò su a dire Lica, sconvolto da queste parole. «Qualcuno si
è fatto tagliare i capelli su questa nave, e per di più nel cuore della
notte? Portatemi qui subito quelle canaglie, perché voglio proprio sapere
a chi devo tagliare la testa per allontanare il malocchio da questa
nave!». «Sono io che l’ho ordinato» intervenne Eumolpo, «e non certo per
attirare il malocchio su questa nave (visto che ci viaggio anch’io), ma
perché quelle due fecce avevano i capelli così lunghi e scarmigliati che,
per non dare l’impressione che la nave si fosse trasformata in una galera,
gli ho ordinato di togliersi di dosso tutto quello schifo, ma nel contempo
anche perché senza più quella massa di capelli sulla fronte, tutti
potessero leggere chiaramente il marchio dell’infamia che si portano
dietro. Pensate che oltretutto si stavano mangiando i miei soldi
spassandosela con una ganza che avevano in comune. Ed è proprio a casa di
quella lì che ieri notte li ho portati via inondati di vino e di profumo.
Per farla breve, hanno ancora addosso l’odore di quei pochi quattrini che
mi restano».
*
Così, per placare il nume protettore della nave, fu deciso di rifilarci
quaranta nerbate a testa. E non ci stettero mica a pensare su: alcuni
marinai con funi alla mano ci saltano addosso come furie e cercano di
placare il dio tutelare col nostro sangue miserabile. Le prime tre nerbate
io le ressi con la fermezza di uno spartano. Gitone, invece, alla prima
tirò un urlo tanto forte, che Trifena ne riconobbe subito la ben nota
voce, e non solo la padrona rimase turbata, ma anche le sue ancelle,
colpite dal suono familiare di quell’urlo, si buttarono in massa sul
malcapitato. Ma Gitone, bello com’era, aveva già disarmato i marinai per
conto suo e, anche senza aprir bocca, stava cercando di impietosire i suoi
carnefici, quando tutte le ancelle si misero a gridare in coro: «È Gitone,
è Gitone! Fermi con quelle manacce! È Gitone, signora, presto!». Trifena,
che aveva capito d’istinto, drizza le orecchie e si precipita dal ragazzo.
Quanto a Lica, che mi conosceva benissimo, come se avesse anche lui
sentito la mia voce, accorse in coperta e, senza nemmeno guardarmi la
faccia e le mani, mi inquadrò subito l’arnese e palpeggiandolo con tocchi
premurosi disse: «Salute a te, Encolpio». Non c’è quindi da meravigliarsi
che la balia avesse riconosciuto Ulisse a vent’anni di distanza solo per
una cicatrice, se a quel furbone, nonostante la mia faccia e il resto del
corpo fossero resi irriconoscibili dal travestimento, bastò un unico segno
di riconoscimento per identificare con tanta precisione l’uomo che lo
aveva abbandonato. Trifena, invece, ingannata dal nostro trucco – credeva
infatti fosse vera la lettera che avevamo incisa sulla fronte -, scoppiò a
piangere e con un filo di voce si mise a chiederci in quale galera fossimo
finiti nelle nostre avventure di sbandati, e di chi fossero state le mani
che avevano infierito su di noi in quel modo. Però ammetteva che un po’ ce
lo meritavamo tutto quel penare, noi che ce l’eravamo svignata
infischiandocene delle sue attenzioni…
106 Ma Lica, infiammato dalla rabbia, salta su e dice: «Stupida d’una
donna! Cosa ti credi, che gliel’abbiano incise col ferro rovente quelle
lettere? Magari avessero davvero la fronte deturpata da quel marchio! Se
così fosse, noi adesso avremmo almeno una piccola consolazione. Invece ci
hanno preso in giro con tiri da farsa, infinocchiandoci con una finta
scritta».
Trifena era disposta alla pietà, perché non aveva ancora perso del tutto
la speranza di spassarsela, ma Lica, che si ricordava benissimo della
moglie sedotta e dell’affronto patito sotto il portico di Ercole, con la
faccia stravolta dalla rabbia disse: «Che gli dèi immortali si occupano
delle cose umane, mi sa che ormai l’hai capito benissimo, Trifena. Infatti
ci hanno portato qui sulla nave queste canaglie senza che loro se ne
rendessero conto, e ce ne hanno segnalato la presenza con due sogni
identici. Vedi un po’ se li possiamo perdonare, quando son stati gli dèi
in persona a mandarceli qui perché fossero castigati. Personalmente non ho
intenzione di infierire, ma temo che risparmiandoli debba poi essere io a
pagarla cara». Trasformata nella sua opinione da un discorso tanto pieno
di scrupoli religiosi, dice di non volersi opporre alla pena, approvando
anzi in pieno la vendetta proposta. Infatti anche lei, non meno di Lica,
era stata offesa nella dignità individuale e svergognata di fronte a
tutti.
*
107 EUMOLPO. «Questo incarico lo hanno affidato a me, in qualità di
persona a voi non sconosciuta, e mi hanno pregato di riconciliarli con
quelli che un tempo erano loro grandissimi amici. A meno che non pensiate
che questi due ragazzi siano qui per una pura coincidenza, quando la prima
cosa che ogni passeggero chiede prima di imbarcarsi è proprio l’identità
delle persone cui si affida. Siate quindi comprensivi, ora che avete avuto
la vostra soddisfazione, e lasciate che proseguano liberi e senza danni il
loro viaggio fino a destinazione. Anche i padroni più duri e inflessibili
moderano il loro risentimento quando gli schiavi fuggiti tornano pentiti,
e noi risparmiamo la vita ai nemici che si arrendono. Che cosa altro
volete o pretendete di più? Sono qui supplici al vostro cospetto dei
giovani di buona famiglia, onesti, e – cosa questa che conta ancora di più
– legati a voi in passato da rapporti di grande intimità. Anche se vi
avessero portato via del denaro, o avessero tradito la vostra fiducia,
potreste per dio farvi bastare la pena di cui siete al presente testimoni.
Eccoveli qua, col marchio dell’infamia sulla fronte, e i nobili volti
sfregiati dai simboli di una punizione che si son voluti infliggere da
soli». Ma Lica troncò di netto l’arringa del nostro difensore dicendo:
«Non confondere le carte in tavola, ma limitati ad esaminare le cose una
per volta. Tanto per cominciare, se sono venuti di loro spontanea volontà,
per quale ragione si sono rasati la testa? Chi cambia i suoi lineamenti,
prepara un inganno con una scusa, mica per venirsi a scusare. E poi, se
pensavano di ottenere il perdono per tramite tuo, tu perché hai fatto di
tutto per nasconderli? Ne consegue che questi due avanzi di galera nella
rete ci sono finiti per caso, e tu hai cercato di sottrarli alla rabbia
della nostra punizione. Quanto poi al tuo tentativo di metterci in cattiva
luce starnazzando che questi due sono onesti e di buona famiglia, sta’
attento a non peggiorare la situazione con questo tuo tono tronfio. Che
cosa deve fare la parte lesa, quando il colpevole si va a costituire? Ma
sono stati nostri amici: a maggior ragione meritano un castigo più duro,
perché chi fa del male a uno sconosciuto lo chiamiamo furfante, mentre chi
lo fa agli amici è poco meno di un parricida». Eumolpo, cercando di
confutare una requisitoria tanto spietata, disse: «Mi rendo perfettamente
conto che questi due giovani non potevano commettere nulla di peggio che
tagliarsi i capelli nel cuore della notte, e questo spiegherebbe il fatto
che sulla nave costoro ci sono arrivati per caso e non per loro spontanea
volontà. Ma in tutta franchezza vorrei vi fosse chiaro in che modo si
siano semplicemente svolte le cose. Prima di imbarcarsi, volevano
liberarsi la testa di tutto quel peso superfluo e fastidioso, ma
l’improvviso rinforzo del vento li distolse dal mettere in pratica
quell’igienico proposito. Ritennero tuttavia che per portare a termine
quanto avevano deciso di fare il dove non avesse alcuna importanza, dato
che non erano al corrente né delle credenze né delle superstizioni tipiche
di chi naviga». «Ma per ottenere il nostro perdono» interruppe Lica «c’era
forse bisogno di farsi radere i capelli? Non sarà mica che i calvi, di
solito, destano più pena? Ma che senso ha arrivare alla verità attraverso
un intermediario? Tu, piuttosto, che cosa ne dici, razza di cialtrone?
Quale salamandra ti ha fatto cadere le sopracciglia? A quale divinità hai
votato le chiome? Rispondi, canaglia!».
108 Terrorizzato all’idea della punizione, io me ne stavo lì imbambolato
e, confuso com’ero di fronte all’evidenza dei fatti, non sapevo cosa
ribattere… e oltretutto la vergogna di avere la testa rapata e la fronte
liscia per la mancanza di sopracciglia mi impediva di dire e di fare
qualunque cosa. Ma quando poi presero a strofinarmi con una spugna bagnata
la faccia rigata dalle lacrime, e l’inchiostro, colando da ogni parte, mi
trasformò il viso in un mascherone nero, allora la rabbia si convertì in
odio. Eumolpo protestava che non avrebbe permesso a nessuno di infierire
in quella maniera, andando contro le leggi della morale, dei giovani di
buona famiglia, e cercava di opporsi alle minacce di quelle belve
inferocite non solo con le parole ma anche ricorrendo all’uso delle mani.
In questa sua fiera opposizione lo spalleggiavano il servo e un paio di
passeggeri che però, malmessi com’erano, costituivano un conforto verbale
più che un aiuto fisico. Io invece non sto a implorare nulla per me stesso
ma, mostrando i pugni a Trifena, mi metto a gridare a squarciagola che
sarei ricorso alla violenza se lei, quella stramaledetta femmina che lì
sulla nave era l’unica a dover essere presa a nerbate, non avesse smesso
di tormentare Gitone. Ma Lica, indispettito da quella mia impudente
uscita, perde la tramontana, vedendo che, invece di pensare alla mia
situazione, son lì che sbraito tanto per un altro. Anche Trifena, toccata
nel vivo dalle mie frecciate, si scatena di brutto, e tutta la ciurma
comincia a dividersi in due schiere. Da una parte il servo-barbiere ci
distribuisce i suoi rasoi armandosi anche lui; dall’altra i servi di
Trifena ci mostrano i pugni, mentre anche le ancelle partecipano allo
scontro strillando a più non posso. Soltanto il timoniere dichiara che
avrebbe lasciato andare la nave alla deriva, se non cessava la gazzarra
provocata dalla foia di quei depravati. Ciò nonostante il furore dei
duellanti non accenna a placarsi, decisi com’erano quelli a vendicarsi, e
noi a salvare la pelle. Sia di qui che di là ne andarono al tappeto
parecchi, anche se nessuno ci lasciò le penne, mentre in molti
abbandonarono sanguinanti lo scontro, proprio come in una battaglia vera,
senza che però a nessuno si placassero i bollenti spiriti. Allora Gitone,
coraggiosissimo, si accostò il rasoio funesto alle parti basse,
minacciando di tagliar via la causa di tutti quei guai. Ma Trifena si
buttò a impedire un delitto tanto grave, mostrandosi però disposta al
perdono. Allora anch’io mi accostai numerose volte il rasoio alla gola,
deciso però a togliermi la vita tanto quanto Gitone lo era di mettere in
pratica il suo di proposito. Lui però recitava la scenetta tragica con
maggiore convinzione, perché sapeva di avere in mano proprio il rasoio col
quale si era già in precedenza tagliato il collo. Quando fu chiaro che,
stando così le cose da entrambe le parti, quella non sarebbe stata una
scaramuccia delle solite, il timoniere ottenne non senza sforzi che
Trifena, in qualità di mediatrice, proponesse una tregua. Dopo esserci
così scambiati i giuramenti secondo la consuetudine dei nostri padri,
Trifena avanza con in mano un ramo d’olivo tolto al dio protettore della
nave, e coraggiosamente si fa avanti a parlamentare:
«Quale furore trasforma la pace in guerra?
Che colpa scontano le nostre truppe? Su questa nave
l’eroe troiano non conduce seco
il pegno sottratto all’Atride ingannato;
qui Medea non combatte furiosa per mezzo del sangue fraterno,
ma l’amore spregiato schiera le sue milizie. Ahimè,
chi impugnando le armi desidera affrettare la sorte?
Una morte non è già abbastanza? Non vincete per furia
il mare, altri flutti di sangue non date ai gorghi selvaggi».
109 Quando la donna proruppe in queste commosse parole, la mischia cessò
per un attimo, e le schiere, richiamate alla pace, interruppero lo
scontro. Eumolpo, il nostro capo, coglie al volo quell’attimo di
rinsavimento e, dopo aver mosso i rimproveri più aspri a Lica, suggella i
termini di un trattato, le cui clausole erano le seguenti: «Nel pieno
possesso delle tue facoltà mentali, tu, Trifena, prometti di non
lamentarti più dell’affronto subito da Gitone, e di non accusarlo, di non
vendicartene e di non perseguitarlo in alcun modo per tutto quello che tra
di voi c’è stato fino a oggi. Inoltre ti impegni a non pretendere dal
ragazzo, qualora non sia pienamente consenziente, che ti abbracci, ti
baci, venga a letto con te, pena il pagamento di un’ammenda di cento
denari in contanti. Allo stesso modo, tu, Lica, nel pieno possesso delle
tue facoltà mentali, ti impegni a non tormentare Encolpio con espressioni
ingiuriose o con sguardi sprezzanti, né cercherai di sapere dove dorma la
notte, pena – nel caso in cui tu debba violare ciascuna delle suddette
condizioni – un’ammenda di duecento denari in contanti». Dopo aver
concluso il trattato in questi termini, deponiamo le armi e, per evitare
che anche dopo il giuramento ci resti un qualche residuo di rancore
nell’animo, decidiamo di dimenticare il passato scambiandoci dei baci.
Visto che entrambe le parti non vogliono altro, gli odi reciproci si
sgonfiano, e un bel banchetto allestito sul luogo dello scontro suggella
il ritorno all’armonia nell’ilarità generale. Tutta la nave risuona di
canti e, siccome un’improvvisa bonaccia aveva fatto ridurre la velocità,
alcuni si misero ad arpionare con la fiocina i pesci che saltavano fuori
dall’acqua, mentre altri cercavano di tirare su le prede guizzanti
servendosi di ami insidiosi. Sull’albero maestro venivano intanto a
posarsi degli uccelli marini che un tizio, un vero virtuoso, toccava
appena con delle canne preparate apposta, e quelli, rimanendo impigliati,
si lasciavano poi catturare con le mani. Le piume leggere vorticavano
nell’aria e la schiuma impalpabile del mare le avvolgeva nelle sue spire.
Nel frattempo Lica era di nuovo in buona armonia con me e Trifena stava
versando le ultime gocce del suo bicchiere addosso a Gitone, quando
Eumolpo, anche lui un po’ alticcio, cominciò a raccontare barzellette su
calvi e marchiati. Quando poi ebbe esaurito il suo repertorio di scemenze
e freddure, tornò ai versi e ci rifilò questa specie di elegia sui
capelli:
«Sono caduti i capelli ch’erano il fiore della bellezza,
un triste inverno ha spazzato via le chiome primaverili.
Ora le tempie private dell’ombra perduta si struggono in lacrime,
e il cranio bruciato dal sole perduti i suoi peli sogghigna.
O natura ingannevole dei numi! Le gioie donate per prime
alla vita, per prime le togli.
Poveraccio, un attimo fa splendevi per chiome
più bello di Febo e della sorella di Febo.
Adesso più liscio del bronzo o del fungo
rotondo cresciuto sotto la pioggia,
pauroso eviti il riso delle fanciulle.
Che la morte rapida arriva te lo dice
quella parte del cranio che t’è già morta».
110 E mi sa che l’avrebbe tirata ancora per le lunghe, con altre
stupidaggini peggio delle precedenti, quando una delle ancelle di Trifena
si porta Gitone sottocoperta e gli mette in testa una parrucca della
padrona. Poi tira fuori da una scatoletta due sopracciglia finte e gliele
applica così bene sulla fronte, da restituirgli tutta la bellezza di un
tempo. Allora Trifena riconobbe il vero Gitone e, commossa fino alle
lacrime, gli diede un primo bacio in piena regola. Quanto a me, anche se
ci godevo tantissimo a rivedermi davanti il mio ragazzino di nuovo bello
come in passato, ciò nonostante cercavo di nascondere la faccia il più
possibile, consapevole com’ero di essere sfigurato e brutto a un livello
tale che adesso nemmeno Lica mi rivolgeva più la parola. Ma a questo mio
stato di scoramento venne in soccorso quella stessa ancella che,
chiamatomi in disparte, mi sistemò in testa una parrucca non meno
aggraziata. E anzi, il mio volto risplendette ancora più attraente, perché
la parrucca era bionda.
*
Nel frattempo Eumolpo, che ci aveva fatto da avvocato in quel momento
critico e che era un po’ l’artefice dell’avvenuta riappacificazione,
perché il buon umore non scemasse per mancanza di storielle divertenti,
cominciò a dirne di tutti i colori sulla leggerezza delle donne, che
perdono la testa in un attimo, che si dimenticano subito persino dei figli
e che non esiste al mondo una donna, fosse anche la più onesta, che non
sia disposta a fare follie pur di buttarsi in qualche avventuretta fuori
di casa. Il suo discorso, precisò Eumolpo, non si riferiva mica alle
antiche tragedie o a certi nomi arcinoti da secoli, ma a un fatto successo
ai suoi tempi, che lui ci avrebbe raccontato se solo lo avessimo voluto
ascoltare. E quando poi tutti rivolsero occhi e orecchi verso di lui,
attaccò così:
111 «A Efeso viveva una matrona così famosa per la sua virtù, che anche
dai paesi vicini le donne venivano ad ammirare un simile prodigio. Quando
le morì il marito, non contenta di seguire il feretro – come facevano
tutte le altre – coi capelli sciolti e percuotendosi il petto nudo al
cospetto della gente, volle seguire il defunto fin dentro la cappella,
dove cominciò a vegliare in lacrime giorno e notte la salma deposta nella
cripta secondo l’uso dei Greci. Era così disperata e decisa a lasciarsi
morire di fame, che né i genitori né i parenti riuscivano a farle cambiare
idea. Infine, anche i magistrati vennero rispediti indietro senza aver
ottenuto alcun risultato, e ormai tutti piangevano quella donna senza
uguali, che non toccava cibo da cinque giorni. Ad assistere la sventurata
c’era una sua ancella fedelissima che univa le sue lacrime a quelle della
padrona e che ogni qual volta la lampada piazzata sulla tomba accennava a
spegnersi provvedeva a riaccenderla. In città non si parlava d’altro e gli
uomini di ogni estrazione sociale ammettevano che un esempio tanto fulgido
di virtù e di amor coniugale non lo si era mai visto, quando il
governatore di quella provincia fece crocifiggere certi lestofanti proprio
accanto alla cappella dove la matrona continuava a piangere il marito
scomparso da poco. E così, la notte successiva, quando un soldato, messo
lì di guardia alle croci perché nessuno tirasse giù i corpi per andarli a
seppellire, vide il bagliore di una lampada tra le tombe e sentì anche dei
gemiti, come se qualcuno stesse piangendo, e per quel vizio che un po’
tutti hanno, venne preso dal desiderio di sapere chi ci fosse e che cosa
stesse facendo. Scese così nella cripta e quando vide quella donna
bellissima, sulle prime rimase di sasso, pensando di essersi imbattuto in
un qualche fantasma o in una visione infernale. Ma poi, vedendo la salma
lunga distesa e il volto della donna tutto graffiato dalle unghie, si rese
conto (come in effetti era) che si trattava di una giovane vedova incapace
di rassegnarsi alla morte del marito, e così si portò giù nella cripta
quel poco che aveva per cena e cominciò a esortare la donna tra una
lacrima e l’altra, dicendole che era inutile ostinarsi in un vano dolore e
che squassarsi il petto a forza di gemiti non serviva granché: tanto la
morte era uguale per tutti, come uguale lo era l’estrema dimora e tutte
quelle belle frasi di circostanza che si dicono per dare un po’ di
conforto alle menti lacerate dal dolore. Ma lei, ancora più turbata
dall’assurdo tentativo di consolazione di uno sconosciuto, prese a
graffiarsi il petto con maggiore intensità, buttando sulla salma del
marito le ciocche di capelli che si strappava. Il soldato, però, non si
perse d’animo e, continuando a insistere con lo stesso metodo, tentò di
far mangiare qualcosa a quella povera donna. Finché l’ancella, conquistata
dal profumo del vino, cedette per prima e tese la mano a quell’offerta
allettante, e poi, ristorata dalla bevanda e dal cibo, cominciò anche lei
a dare l’assalto all’ostinazione della padrona. “A cosa vuoi che ti serva”
le diceva “lasciarti morire di fame, seppellirti viva e rendere l’anima
innocente prima che sia la tua ora?
Credi forse che se ne avvedano i Mani e le ceneri dei defunti?
Vuoi o no tornare alla vita? Vuoi mettere da parte questi scrupoli da
donnicciola e goderti l’esistenza fin che ti è possibile? È proprio questo
cadavere che dovrebbe convincerti a scegliere la vita”. Siccome chi ci
invita a mangiare e a vivere la vita non lo si ascolta mai controvoglia,
così anche la signora, sfinita dopo tutti quei giorni di digiuno, lasciò
che spezzassero la sua ostinazione, e si rimpinzò di cibo non meno
avidamente dell’ancella, che si era lasciata convincere per prima.
112 Ora, sapete benissimo quali altri stimoli si provino quando si ha la
pancia piena. Ebbene, con le stesse lusinghe usate per convincere la donna
a vivere, il soldato diede l’assalto alla sua virtù. Agli occhi di
quell’esempio di castità il soldato non sembrava per altro né brutto né
insipido, tanto più che l’ancella cercava di renderglielo simpatico,
continuando a ripeterle:
“Non vorrai mica rinunciare anche a un amore gradito?
[E non ti ricordi in che paese vivi?”].
Bene, per non farvela troppo lunga, la donna non proseguì il digiuno
nemmeno con questa parte del corpo, e il soldato vittorioso la persuase a
rompere la doppia astinenza. E così giacquero insieme non solo nella notte
che li vide consumare le nozze, ma il giorno successivo e quello dopo
ancora, naturalmente dopo aver chiuso la porta della cappella, in maniera
tale che chiunque, estraneo o parente, si fosse recato per caso alla
tomba, credesse che quella moglie castissima si fosse lasciata morire
sulla salma del marito.
Nel frattempo il soldato, trascinato dalla bellezza della donna e dalla
tresca segreta, comprava quanto di buono era alla portata delle sue
finanze e, appena calava la sera, lo portava giù nella cappella. E così i
parenti di uno dei ladri crocifissi, vedendo che la sorveglianza si era
allentata, una notte tirarono giù il loro congiunto dalla croce e gli
resero gli estremi onori. Il soldato, raggirato mentre si occupava di ben
altro, quando il giorno seguente si rese conto che su una delle croci non
c’era più il corpo, temendo il supplizio, corse a raccontare alla donna
quel che era successo, e aggiunse che non avrebbe aspettato il verdetto
del giudice, ma che avrebbe punito da solo, con la spada, la propria
negligenza. Poi le chiese di preparare lì nella cappella un loculo anche
per lui che aveva ormai le ore contate, in modo che quella tomba fatale
riunisse le spoglie del marito e dell’amante. Ma la donna, non meno
pietosa che casta, gli rispose così: “Gli dèi non permettano che io
assista a così breve distanza al funerale dei due uomini che ho amato di
più nella vita. Preferisco appendere un morto sulla croce, piuttosto che
lasciar morire un vivo”. Dopo aver detto queste parole, ordina di togliere
dalla bara il cadavere del marito e di inchiodarlo alla croce rimasta
vuota. Il soldato mise in pratica la brillante idea della donna e, il
giorno seguente, la gente si domandava allibita come avesse fatto un morto
a salire sulla croce da solo».
113 I marinai accolsero il racconto con una bella risata, mentre Trifena,
tutta rossa dalla vergogna, nascose la faccia sul collo di Gitone con un
gesto pieno di grazia. Non rise invece Lica che, scuotendo stizzito il
capo, disse: «Se il governatore avesse agito secondo giustizia, avrebbe
dovuto far riportare nel sepolcro la salma del marito e far crocifiggere
la donna».
È chiaro che gli era venuta in mente Edile e il caos scoppiato a bordo
durante quel viaggio tutto a base di sesso. Solo che i termini del
trattato non ammettevano i brutti ricordi, e l’allegria che aveva ormai
contagiato tutti non lasciava spazio al risentimento. Trifena, nel mentre,
seduta com’era in grembo a Gitone, un po’ gli copriva di baci il petto e
un po’ gli rimetteva a posto le ciocche della parrucca sulla fronte
pelata. Quanto a me, avvilito e insofferente di fronte a quel nuovo
sodalizio, non toccavo né cibo né vino, limitandomi a tirare occhiate
torve e minacciose a quei due. A farmi male dentro erano tutte le carezze
e tutti i baci che quella viziosa riusciva a inventare. In quel momento
non sapevo con chi prendermela di più: se con il ragazzino che mi portava
via la tipa, o con la tipa che si stava circuendo il ragazzino: ai miei
occhi entrambe le cose erano insopportabili e ben più gravose della
prigionia di prima. A tutto questo si aggiungeva poi il fatto che Trifena
mi si rivolgeva come se non fossi mai stato uno del gruppo oltre che il
suo gradito amante di un tempo, e Gitone non mi riteneva degno nemmeno del
tradizionale bicchierino, né – il che è il minimo -, mi coinvolgeva nella
normale conversazione, immagino per paura di riaprire una ferita nel cuore
della donna, proprio adesso che la riconciliazione si era avviata. Fu così
che il petto mi si inondò di lacrime di dolore, e i gemiti soffocati dai
singhiozzi per poco non mi fecero soffocare.
*
Lica cercava anche lui di spassarsela un po’, senza però avere più quel
suo tono da padrone, ma con il sorriso di un amico che chiede un favore.
*
L’ANCELLA DI TRIFENA A ENCOLPIO. «Se solo ti resta un po’ di sangue libero
nelle vene, allora quella lì non considerarla più di una baldracca. Se sei
un uomo vero, gira alla larga da quella rotta in culo».
*
Quello di cui mi vergognavo di più era che Eumolpo venisse a sapere quanto
era successo e, pettegolo com’era nella sua insolenza, si vendicasse con
qualcuno dei suoi versi.
*
Eumolpo allora giurò con formule solenni.
*
114 Mentre stavamo chiacchierando di queste cose, il mare cominciò a
incresparsi, e grossi nuvoloni addensatisi da ogni parte seppellirono il
cielo nel buio. I marinai corrono trepidanti ai loro posti di manovra e
ammainano le vele in prossimità della tempesta. Ma né il vento spingeva le
ondate in una direzione precisa, né il timoniere sapeva che rotta seguire.
A tratti le folate ci spingevano verso la Sicilia, ma ben più di frequente
era l’Aquilone, che domina incontrastato sulle coste dell’Italia, a
sballottare da una parte e dall’altra la nostra povera nave, e poi – cosa
questa assai più inquietante della stessa tempesta – tutto ad un tratto la
luce venne risucchiata da tenebre così fitte, che il timoniere non
riusciva nemmeno a scorgere tutta la prua. Quando poi fu evidente che il
disastro era ormai inevitabile, Lica protese trepidante le mani verso di
me e mi disse: «Encolpio, aiutaci tu in questo pericolo, e restituisci
alla dea che protegge la nave la veste e il sistro. In nome del cielo,
abbi pietà di noi, tu che lo hai sempre fatto!».
Mentre mi gridava queste parole, una folata di vento lo scaraventò in
mare. Poi riemerse per un attimo tra le onde, ma alla fine l’acqua lo
inghiottì coi suoi vortici di morte. Trifena che era a un passo dal fare
la stessa… la afferrarono degli schiavi fedeli che la misero su una
scialuppa insieme a buona parte dei bagagli, strappandola a morte sicura.
Avvinghiato a lui, gli gridai tra le lacrime: «È dunque questo che ci
meritiamo dagli dèi, che a unirci sia solo la morte? Ma la sorte avversa
non vuole concederci nemmeno questo. Ecco, tra un attimo le ondate
rovesceranno la nave e tra un attimo il mare dividerà il nostro abbraccio
d’amore. Dunque, se Encolpio l’hai amato davvero, bacialo finché c’è
tempo, e strappa quest’ultima gioia al destino che incalza». A queste mie
parole, Gitone si tolse il vestito e, insinuandosi sotto la mia tunica mi
porse la testa perché gliela baciassi. Poi, per evitare che un’onda
maligna ci spazzasse via stretti com’eravamo in quell’abbraccio, legò
insieme i nostri corpi con una cintura e disse: «Se non altro, il mare ci
trascinerà insieme un po’ più a lungo, o se invece vorrà essere più
pietoso, ci scaraventerà sulla stessa spiaggia, dove qualcuno, per un
comune senso di umanità, forse ci coprirà di pietre, o ancora, cosa che
alla fine concedono anche i flutti in tempesta, sarà la sabbia a coprirci
senza nemmeno saperlo». Io mi attaccai a lui in quell’ultimo abbraccio e
poi, sistemandomi come dentro una bara, attesi la morte che adesso non mi
faceva più paura. Nel frattempo la tempesta, realizzando il volere del
destino, distrusse tutto quel che restava della nave, che ormai non aveva
più albero, né timone, né sartie, ma era ridotta a una carcassa senza
forma che andava alla deriva in balia delle onde.
*
In un attimo arrivarono dei pescatori, pronti a fare razzia sulle loro
piccole imbarcazioni. Ma poi, quando videro che c’era ancora della gente
decisa a difendere le proprie cose, da aggressivi che erano si
dimostrarono disponibili a darci una mano.
*
115 Dall’interno della stiva, proprio sotto la cabina del nostromo,
sentiamo arrivare un gemito, come il verso strozzato di una bestia che
cerchi una via d’uscita. Seguendo quindi il suono, troviamo Eumolpo che,
seduto per terra, stava riempiendo di versi un grosso foglio di pergamena.
Sbalorditi al vedere che anche con un piede nella fossa lui trovasse
ancora il tempo di scrivere poesie, lo trasciniamo fuori nonostante le sue
urla di protesta, e lo preghiamo di non fare tante storie. Ma lui,
interrotto nel pieno del lavorìo poetico, salta su tutte le furie e ci
investe così: «Lasciatemi finire il concetto: è proprio alla fine che
viene il difficile». Afferro quell’invasato per un braccio e chiedo a
Gitone di darmi una mano a trascinare a terra il poeta che intanto non la
smetteva di muggire.
*
E finalmente, dopo aver sistemato anche questa faccenda, ci rintanammo col
morale a terra in una capanna di pescatori e lì, rifocillati in qualche
modo con della roba avariata scampata al naufragio, passammo una notte
terribile. La mattina dopo, mentre stavamo discutendo sulla direzione di
marcia da prendere, all’improvviso vidi un corpo umano avvicinarsi alla
spiaggia trascinato da una debole corrente. Rimasi tristemente sorpreso e,
fissando con occhi umidi quel mare traditore, dissi: «Quest’uomo da
qualche parte della terra ha una moglie tranquilla che lo aspetta, o forse
un figlio che non sa nulla della tempesta, o addirittura un padre:
comunque, il giorno della partenza ha lasciato qualcuno, salutandolo con
un bacio. Ecco come vanno a finire i progetti degli esseri umani, i loro
sogni e le loro speranze! Ecco l’uomo come sta a galla!». Ero convinto di
compiangere un pinco pallino, quando un’onda gli girò verso terra il volto
ancora intatto, e riconobbi quello che fino a poco tempo prima era stato
il tremendo e implacabile Lica, e che adesso era lì quasi disteso davanti
ai miei piedi. Non riuscii a trattenere più oltre le lacrime, e anzi,
percuotendomi un paio di volte il petto con le mani, esclamai: «Dov’è
finita la tua tracotanza? Dov’è ora la tua prepotenza? Ma guardati: sei in
balia dei pesci e delle bestie: poco fa strombazzavi la potenza del tuo
dominio, e adesso, da naufrago quale sei, di quella nave enorme non ti
resta più manco una tavola. Avanti, mortali, riempitevi pure la testa di
grossi progetti, muovetevi pure coi piedi di piombo, disponendo per
migliaia di anni delle ricchezze accumulate col raggiro. Ma guardatelo:
ieri era ancora lì che si contava tutta la sua roba, e in cuor suo aveva
già stabilito il giorno del rientro in patria. O dèi e dee, com’è lontano
adesso dalla sua meta! E non solo il mare è così infido per i mortali. Chi
combatte lo tradiscono le armi. Chi invece fa voti agli dèi, gli crolla
addosso la casa. Chi, per la fretta, si butta di corsa sul cocchio,
finisce che cade e ci lascia la pelle. C’è chi si strozza di cibo, e chi
muore a forza di digiuni. Se solo tiri bene le somme, il naufragio arriva
dovunque. Ma è pur vero che chi è travolto dal mare non ha sepoltura: come
se importasse qualcosa al corpo, che comunque è destinato a morire, se a
consumarlo è il fuoco, il mare o il tempo. Qualunque cosa accada, la fine
è uguale per tutti. Ma le bestie feroci faranno a pezzi il cadavere: come
se il fuoco gli riservasse un trattamento migliore! Anzi, c’è da credere
che sia proprio questa la pena più grave, visto che tocca agli schiavi
quando ci fanno arrabbiare. Ma allora, che razza di follia è mai questa,
fare cioè di tutto perché di noi non resti più nulla dopo la morte?».
*
Il corpo di Lica bruciava su un rogo innalzato da mani nemiche, mentre
Eumolpo, impegnato com’era a ponzare l’elogio funebre del defunto, puntava
lo sguardo lontano in cerca di ispirazione.
*
116 Dopo aver volentieri portato a termine questo pietoso ufficio, ci
mettiamo in marcia e, tempo un attimo, arriviamo fradici di sudore su
un’altura, e di lì riusciamo a scorgere non troppo lontano un paese
arroccato in cima a una collina. Sbandati com’eravamo, non riuscivamo a
riconoscerlo, finché un contadino ci informò che si trattava di Crotone,
città antichissima e, un tempo, la prima d’Italia. Siccome poi cercavamo
di avere maggiori ragguagli sugli abitanti di quella nobile terra e sul
tipo di affari cui essi amavano dedicarsi, visto che a forza di guerra non
gli era rimasto granché. «Cari forestieri» ci illuminò il tipo, «se siete
commercianti, allora cambiate programma e trovatevi un altro settore nel
quale sbarcare il lunario. Se invece siete dei furbacchioni che ci sanno
fare e avete la menzogna facile, allora buttatevici pure perché non ci
metterete molto a fare soldi. Infatti in questa città delle lettere se ne
infischiano, l’eloquenza non trova spazi, e l’onestà e le buone maniere
non sono per niente di moda. La gente che incontrerete in questa città,
bene, sappiate che si divide in due categorie: o truffatori o truffati. In
questa città i figli non li riconosce nessuno, perché chi ha un erede
legittimo non lo invitano ai pranzi o a teatro, ma lo escludono da ogni
piacere, costringendolo a mescolarsi in mezzo ai derelitti. Invece, quelli
che non si sono mai sposati e che non hanno parenti prossimi raggiungono
le cariche più alte, cioè a dire sono soltanto loro che muovono le cose,
sono loro gli unici coraggiosi e onesti. Entrate in una città» proseguì,
«che è come quelle campagne dove, nel pieno delle pestilenze, non si
vedono altro che cadaveri dilaniati o corvi che li dilaniano».
*
117 Eumolpo, che di noi era quello che la sapeva più lunga, si mise a
riflettere sulla nuova situazione e ci confessò che a lui quel sistema di
rastrellare quattrini non gli dispiaceva affatto. Sulle prime io pensai
che il vecchio, un po’ suonato com’era per quella sua mania di fare versi,
scherzasse, ma lui, invece, disse: «Se solo potessi disporre di un più
ricco apparato scenico, cioè di un costume più presentabile, un
equipaggiamento scelto, per garantire maggiore credibilità alle mie
menzogne! Per dio, è un lavoretto che non rimanderei un attimo soltanto e
vi procurerei soldi a palate in men che non si dica». Gli prometto di
aiutarlo a procurarsi quanto gli serve, basta che si adatti a mettersi il
vestito indossato nell’ultima rapina e a servirsi di ciò che avevamo
portato via nel colpo alla villa di Licurgo. Quanto poi al denaro
necessario lì sul momento, ce lo avrebbe procurato la madre degli dèi,
bontà sua.
«E allora cosa aspettiamo» disse Eumolpo, «a incominciare la nostra
messinscena? Se la cosa vi va a genio, fate finta che io sia il vostro
padrone». Nessuno osò criticare quell’iniziativa, che oltretutto non ci
costava nulla. E così, perché il segreto di quella farsa non uscisse dalla
nostra cerchia, giurammo, attenendoci a una formula di Eumolpo, che ci
saremmo fatti bruciare vivi, incatenare, bastonare, passare da parte a
parte, e tutto quello che lui ci avesse imposto: ci consegnammo anima e
corpo, devotamente, al nostro nuovo padrone, come se fossimo stati dei
gladiatori di professione. Dopo aver prestato il giuramento e avere
indossato vesti servili, salutiamo Eumolpo come padrone e insieme
apprendiamo che Eumolpo aveva perduto un figlio, un ragazzo di eccezionali
qualità e di belle speranze, e che il povero vecchio se ne era andato
dalla sua città proprio per non avere più sotto gli occhi tutti i giorni i
clienti e gli amici del figlio e quella tomba per lui causa di continue
lacrime. A questo lutto si era poi aggiunto di recente un naufragio nel
quale aveva perduto più di venti milioni di sesterzi, disastro questo che
gli dispiaceva non tanto per la perdita in sé e per sé, quanto piuttosto
perché, avendo perso il suo seguito, non si riconosceva più nel suo rango.
In Africa aveva però ancora un capitale di trenta milioni in terreni e in
crediti, e un numero così elevato di schiavi, sparsi un po’ in giro per le
campagne della Numidia, che con loro avrebbe potuto conquistare perfino
Cartagine. In base a queste premesse di copione, suggeriamo a Eumolpo di
tossire spesso, di far finta di avere la gastrite e proprio per questo di
rifiutare, davanti agli altri, qualunque tipo di cibo. Di parlare in
continuazione di oro e d’argento, dei terreni che non rendono e della
costante sterilità dei suoi sterminati possedimenti. E poi di mostrarsi
ogni giorno alle prese con conti vari e di cambiare testamento una volta
al mese. Infine, perché non mancasse proprio nulla a quella sceneggiata,
di confondere i vostri nomi ogni volta che ci chiamava, per dare così
l’impressione di ricordarsi anche dei servi che non erano lì insieme a
lui.
Dopo avere rifinito il nostro piano, preghiamo gli dèi che ce la mandino
buona e poi ci rimettiamo per strada. Ma Gitone non ce la faceva a portare
quel carico cui non era abituato, e il servo Corace, imprecando contro il
suo mestiere, a ogni passo appoggiava a terra il bagaglio, prendendosela
con la nostra fretta e minacciandoci che avrebbe abbandonato lì ogni cosa,
o che se la sarebbe svignata con tutta la nostra roba. «Ma cosa credete
che sia» sbottò poi, «un mulo o una nave da carico? Mi sono messo a
disposizione per fare il lavoro di un uomo, non di un cavallo. E non sono
meno libero di voi, anche se mio padre mi ha lasciato povero». Ma dare in
escandescenze non gli bastava mica: ogni tanto alzava una gamba e riempiva
la strada di rumori vergognosi corredati da adeguati profumini. Queste
bizze polemiche di Corace destavano il riso di Gitone, che a sua volta ne
accompagnava ogni crepitio con un verso della bocca di uguale efficacia.
118 EUMOLPO. «Cari ragazzi miei, non sapete quanti la poesia ne ha illusi.
Infatti basta che uno metta insieme un verso e rabberci qualche idea in
una frase elegante, che subito si crede d’essere arrivato in cima
all’Elicona. Ed è per questo che moltissimi avvocati, sfiniti dal lavoro
in tribunale, si rifugiano nella serenità della poesia come se fosse un
porto più tranquillo, convinti che sia più facile mettere insieme dei
versi che un’arringa traboccante di pensierini vigorosi. Ma uno spirito
eletto disprezza la superficialità, e la mente non è in grado di concepire
o di creare nulla di buono, se non è per così dire inondata dal grande
fiume della cultura. È obbligatorio evitare le trivialità del lessico, e
usare parole sconosciute alla massa, in modo da mettere in pratica il
famoso principio
“odio il volgo profano e ne giro alla larga”.
Bisogna poi evitare che i concetti esulino troppo dal contesto generale:
devono invece venir inseriti armonicamente, in modo da risplendere come i
colori di un tessuto. Prova ne siano Omero e i lirici, o il romano
Virgilio e Orazio che è così felice nella descrizione dei particolari.
Quanto agli altri, o non sono riusciti a imboccare la strada giusta che
porta alla poesia o, se l’hanno imboccata, non hanno avuto il coraggio di
percorrerla fino in fondo. Per esempio, prendete un po’ un soggetto
stupendo come la guerra civile: se qualcuno volesse affrontarlo senza però
essere sorretto da un’adeguata mole di studi, rimarrebbe schiacciato dal
peso. Il problema infatti non è tanto quello di trattare in versi una
successione di eventi (campo questo in cui gli storici riescono di gran
lunga meglio), quanto piuttosto quello di avventurarsi con la fantasia
attraverso peripezie e interventi di divinità, vicende reali e inventate,
in modo che il risultato finale sembri più il fervore di una mente davvero
ispirata che non il racconto scrupoloso basato su testimonianze certe.
Tipo questa mia improvvisazione, se vi va di sentirla, anche se non ha
ancora ricevuto l’ultima mano:
*
119 «I Romani regnavano signori vittoriosi del mondo,
per terra e per mare, là dove corrono entrambi i soli,
eppure non erano sazi. E ancora solcavano i flutti
battuti da grosse carene. Se un golfo s’apriva nascosto,
o qualche terra che l’oro brillante esportasse,
lì c’era il nemico e, pronti alla triste guerra i destini,
ne predavano i beni. Non piacevano più
i piaceri di un tempo, non le gioie travolte dall’uso comune.
Lodavano il bronzo corinzio i soldati, si cercava
nel cuor della terra una luce più viva dell’ostro,
tessuti mai visti ne traevano Numidi e Seri,
e i popoli d’Arabia avevano spogliato i propri campi.
Ecco nuove stragi e ferite inferte alla pace.
Si acquistano con l’oro le belve nei boschi, si scovano
ai limiti dell’africo Ammone, che non manchi la belva
dai denti preziosi per la morte. Una fame straniera colpisce le navi,
e pace non trova la tigre tradotta con gabbia dorata,
a bere il sangue dell’uomo dinanzi a una folla festante.
Ahi, che vergogna svelare l’amaro destino che incalza!
Come fanno i Persiani, rapiscono i giovani nel fiore degli anni,
e il membro gli troncano col ferro, perché ignorino il sesso,
e ritardino il corso del tempo che vola e la fuga degli anni,
mentre cerca se stessa natura e non sa ritrovarsi.
Son le checche che piacciono a tutti coi loro flaccidi corpi,
i capelli al vento, le mille novità della moda
e tutto ciò che eccita il maschio. Sradicata dall’Africa
ecco una tavola in cedro che riverbera stuoli di schiavi
e di porpore, screziata di macchie simili all’oro,
che in bellezza lo vincono e attirano lo sguardo.
Sepolta nel vino una folla circonda questa tavola sterile
e a torto pregiata, e insegue errabondo il soldato
la preda con in pugno le armi per le strade del mondo.
Ingegnosa è la gola. Lo scaro che nuota nel mar di Sicilia
lo portano vivo alla mensa, e l’ostrica colta sui lidi lucrini
la vendono per cene sontuose, come stimolo subdolo
alla fame. Già le acque del Fasi son deserte d’uccelli,
e nel vuoto fogliame resta solo il sospiro dell’aria.
Stessa folle demenza nel Campo. Si svendono i Quiriti,
e rivolgono i voti al sonante denaro e al profitto.
Una merce è la massa, una merce è la Curia dei padri,
e il favore è in vetrina col prezzo. Anche il libero cuore
dei senatori è venuto meno, e dispersi gli averi
il potere ad altri è passato. Giace guasta dall’oro
anche la somma maestà. È sconfitto e scacciato dal popolo Catone,
ma più triste chi vinse, che a Catone i fasci ha strappato.
E infatti – questa è l’onta del popolo e il crollo
di tutti i principi – non fu l’uomo soltanto sconfitto,
ma con lui si piegò in un tratto la potenza e l’onore
di Roma. A tal punto era Roma corrotta
che vendeva se stessa e chiunque poteva predarla.
Travolta nel mentre da duplice gorgo, la plebe
cedeva al diluvio d’usura e al debito fatto sistema.
Non c’è casa sicura, non c’è corpo che pegno non abbia,
come fosse una peste che nata nel cuore dei corpi
furiosa dilani le membra tra spasimi atroci.
Le armi piacciono ai miseri, perché i beni distrutti dal lusso,
nel sangue ritrovano vita. Osa il povero che nulla rischia.
Immersa in un fango così, prostrata in pieno letargo,
che rimedi potevano scuotere Roma e sanarla,
se non della guerra il furore e le brame eccitate dal ferro?
120 La sorte tre capi fornì, che tutti in regioni diverse
la mortifera Enio ha travolto in un cumulo d’armi.
Crasso è preda dei Parti, giace il grande nel mare di Libia,
Giulio Roma l’ingrata del suo sangue ha cosparso,
e, quasi la terra non reggesse simili tombe,
ne disperse le ceneri. Ecco gli onori che dà la gloria.
Giace immerso nel mezzo di un’ampia voragine un luogo
tra Partenope e i campi dell’alta Dicarchi,
che lo bagna il Cocito: e l’efflato che fuori ne spira
tutto intorno si spande infuriando come vampa funesta.
Non è questa una terra che verdeggi nel tempo d’autunno,
non ne allietano il suolo le erbe, né dai molli virgulti
a primavera si leva il suono di voci tra loro discordi,
ma caos informe soltanto e rocce di pomice nera
godono dei cipressi che spuntano intorno funerei.
In quel luogo il padre Plutone solleva la testa,
cosparsa di fiamme di roghi e di cenere bianca,
e con tali parole eccita la Fortuna dal rapido volo:
“Tu che reggi ogni cosa, umana o divina che sia,
o Sorte, cui mai piacque troppo certa potenza,
che sempre ami il nuovo e appena lo hai lo rigetti,
non ti senti per caso schiacciata dal peso di Roma,
né più puoi sollevare la mole già avviata allo sfascio?
Le sue stesse forze dispregia la gioventù di Roma,
e quanto ha creato sostiene a fatica. Guarda ovunque
che sfarzo di prede e sostanze smaniose d’estinguersi.
Costruiscono case dorate che toccano il cielo,
con le rocce ricacciano l’acqua, fanno nascere il mare nei campi,
e ribelli sconvolgono l’ordine dato alle cose.
Ecco assaltano pure i miei regni. Solcata da macchine folli,
la terra si squarcia, nei monti svuotati
gemono gli antri, e mentre la pietra s’adatta a folli usi,
i Mani infernali confessano di ambire al cielo.
Per questo trasforma, o Sorte, in guerra il tuo volto pacato,
e risveglia i Romani, fornisci di anime il mio regno.
Da troppo non bagno le mie labbra nel sangue,
né l’amata Tisifone v’intinge le membra assetate,
dal giorno che il brando di Silla ne bevve a fiumi e diede
la terra alla luce orride messi nutrite di sangue”.
121 Disse così, e volendo alla destra unire la destra,
col gesto squarciò la terra aprendovi un baratro enorme.
Allora la sorte dal cuore volubile parlò queste parole:
“O padre, cui ottemperano gli antri segreti del Cocito,
se impunemente m’è dato svelare i destini veraci,
i tuoi voti saranno esauditi. Nel petto mi si agita
un’ira non minore, né fiamma più lieve le viscere m’arde.
Tutto ciò che io ho dato alla rocca di Roma lo odio,
e la rabbia mi rode a quei doni. Ma il dio che creò tale mole,
la schianterà lui stesso. Perché anch’io sento in cuore la brama
di cremare le salme e saziarmi di un’orgia di sangue.
Già io vedo Filippi ricoperta due volte di morte,
e le pire in Tessaglia e i lutti del popolo ispano.
Già il fragore delle armi mi introna le orecchie ferventi.
E già vedo, o Nilo, risuonare la tua fortezza di Libia,
e la punta di Azio e i guerrieri atterriti dalle frecce di Apollo.
Orsù, dunque, spalanca del tuo regno i confini assetati
e anime nuove richiama. A stento il nocchiero del fiume
traghettare potrà sulla barca tutte le ombre dei morti:
di una flotta avrebbe bisogno. Ma tu saziati in tanta rovina,
o Tisifone pallida, e lecca le aperte ferite:
il mondo straziato tra i morti è sospinto allo Stige”.
122 Aveva appena finito di parlare, che una nube squassata
da un lampo corrusco tremò vomitando lingue di fuoco.
Il padre delle ombre si china, rinserra il grembo del suolo,
e pallido in volto paventa le saette fraterne.
I presagi divini tosto annunciano stragi di umani
e flagelli imminenti. Sfigurato nel volto da macchie di sangue,
il Titano si copre la faccia di nebbia: già da allora
fiutare potevi l’orrore delle guerre civili.
Dal suo canto velandosi il candido volto,
Cinzia nega luce allo scempio. Stroncate le cime dei monti
franano tra strepiti, e i fiumi in un cieco vagare
vanno verso la morte scorrendo tra rive non note.
Il cielo infuria per strepito d’armi e un tremulo squillo fra gli astri
chiama Marte a battaglia, e già l’Etna divorano
fiamme mai viste e al cielo arrivano i lampi.
Tra le tombe e le ossa dei morti insepolti,
ecco falbe parvenze levano minacce con strida sinistre.
Sparge fiamme una cometa seguita da stelle inaudite,
e Giove subito riversa sul mondo una pioggia di sangue.
Un dio scioglie rapido i presagi, perché Cesare ha rotto
gli indugi, e sospinto dall’ansia di vendetta,
le armi galliche butta e brandisce spade civili.
Sulle altissime Alpi sconfitte dal Greco divino,
dove i sassi si abbassano e cedono il passo a chi sale,
lì c’è un luogo che a Eracle è sacro: dura neve lo copre
d’inverno e su fino al cielo lo innalza con bianca vetta.
Lì diresti che il cielo è crollato: quel luogo non si stempera ai raggi
del sole cocente, né alla brezza della nuova stagione,
ma tutto congelano il ghiaccio e la brina invernale.
Tutto il mondo potrebbe sorreggere col suo dorso minaccioso.
Come Cesare il passo calcò coi soldati festanti,
e scelse un punto di sosta, dalla cima più alta del monte
abbracciò con lo sguardo le vaste terre d’Esperia,
e levando le mani alle stelle e insieme la voce, così disse:
“Onnipotente Giove, o terra saturnia un tempo
felice delle mie gesta e greve di tanti trionfi,
è a voi che m’appello: mio malgrado qui Marte risveglio a battaglia,
mio malgrado riporto la guerra. Grave offesa mi spinge,
cacciato dalla mia terra, mentre il Reno coloro di sangue,
mentre ancora respingo i Galli che di nuovo si spingono
dalle Alpi a assediare la rocca, io ne vengo bandito
sebbene in trionfo. Dopo il sangue germano e sessanta vittorie,
mi si dice sei reo. A chi fa paura la mia gloria?
Chi sono quelli che vogliono la guerra? Solo masse assoldate
da vile mercede, per le quali la mia Roma è matrigna.
Ma non senza vendetta, credo, né senza castigo, un codardo
legherà questa mia destra. Correte furenti alla vittoria,
correte, compagni, e la causa col ferro trattate.
Una per tutti è l’accusa e tutti sovrasta un’unica strage.
Voglio rendervi grazie, non ho vinto da solo.
Ma se sono colpa i trofei e infamia le nostre vittorie,
il dado sia tratto e giudice sia la Fortuna. Guerra portate,
date prova di voi nello scontro. Certo la causa per me è risolta:
tra tanti guerrieri armato, non so cosa sia la sconfitta!”.
Dopo aver tuonato così, dal cielo l’uccello d’Apollo
diede fausti presagi muovendosi in volo per aria.
A sinistra si udirono poi da una selva paurosa
voci strane seguite da bagliori di fiamma.
Anche il disco di Febo si fece più vivo e più grande
di sempre, e il volto si cinse di un raggio di oro splendente.
123 Rincuorato da tali presagi, le insegne di guerra
Cesare innalza e solo al comando affronta imprese mai viste.
Per prima la terra coperta di ghiaccio e di candide brine
non gli si oppone, restando immobile nel suo orrore.
Ma quando le schiere spezzarono la nebbia compatta
e il cavallo impaurito ruppe le croste gelate dell’acqua,
le nevi si sciolsero. Un attimo e fiumi creati dal nulla
sgorgarono dai monti, ma come a un ordine dato
si bloccavano anch’essi, con il flutto stupito di fronte
all’arresto, e ciò che prima era liquido, adesso era lastra da taglio.
Illuse allora i passi la crosta sempre malfida,
e i piedi sorprese: e insieme le schiere e i guerrieri
con le armi giacevano perduti in un mucchio confuso.
Ecco pure le nubi colpite da gelidi soffi
rovesciare il carico, e i venti irrompere a turbine,
e la grandine turgida scrosciava dal cielo sventrato.
Ormai le nubi stesse crollavano sfatte sulle schiere,
cozzando col ghiaccio come onde sul mare.
Vinta era la terra dal gelo, vinte anche le stelle,
e vinte le correnti che immobili tacevano a riva.
Ma non Cesare ancora, che appoggiato all’asta possente
col suo passo sicuro violava quegli orridi campi,
quale l’Anfitrioniade scese altero dal Caucaso,
o Giove cupo in volto calò dalle vette d’Olimpo,
quando respinse i dardi dei Giganti al tramonto.
Mentre Cesare irato sconfigge quelle rocche superbe,
con un battito d’ali fremente la Fama veloce s’invola,
e del Palatino il punto più alto raggiunge,
ogni statua rimbomba di quel rombo romano:
navi corrono il mare e a ogni giogo delle Alpi
si addensano squadre coperte di sangue germano.
Armi, sangue, massacri, incendi e rovine di guerra
dinanzi agli occhi sfilano. Allora i cuori sconvolti
in tumulto dal panico sono scissi in due schiere.
Scappa questo per terra, confida quello nel mare,
della patria adesso più sicuro. Qualcuno vuole invece
la strada delle armi tentare e il fato seguire imperioso.
Quanto grande il terrore, tanto rapida è la fuga. Ma ancora più in fretta,
– vista questa miseranda – nel pieno del caos lascia
il popolo la sua città deserta e va dove il cuore lo spinge.
Roma vuole fuggire, e i Quiriti sbaragliati a un semplice suono
di voce le case si lasciano dietro nel lutto.
Chi con mano tremante i figli sostiene, chi in seno
i Penati nasconde e piangendo varca per l’ultima volta la soglia,
e il nemico assente consacra nel voto alla morte.
Alcuni si stringono al petto angosciati le spose,
e i genitori anziani, mentre i giovani inadatti agli sforzi
salvano solo quel che han di più caro. Chi incauto trascina
con sé tutto quanto possiede, il bottino trasporta ai nemici.
È come quando l’Austro si leva imperioso dal largo,
e gonfia di colpi le onde, che allora alla ciurma
non serve più remo o timone, ma all’albero lega uno il suo peso,
mentre un altro cerca spiagge sicure in fondo a un golfo,
e un altro ancora spiega le vele e in tutto alla sorte si affida.
Ma questo è ancora poco. Insieme ai due consoli il Grande,
lui terrore del Ponto, lui che è giunto all’Idaspe selvaggio,
lui flagello dei pirati, che portato tre volte in trionfo,
Giove stesso aveva temuto, cui il Ponto dal vortice infranto
e il Bosforo dall’onda mansueta si erano inchinati,
lui – vergogna! – fuggiva gettando il suo nome di capo,
così che la Sorte bizzarra vedesse la schiena anche del Grande.
124 Allora l’immane contagio colpisce anche gli dèi.
E il cielo stesso fugge impaurito. Ed ecco che la mite schiera
dei numi abbandona sdegnata la terra impazzita,
lasciandosi dietro le spalle la folla dannata dei mortali.
Agitando le sue candide braccia, prima fra tutti la Pace
nasconde nell’elmo il capo sconfitto, e in fuga abbandona
la terra, riparando nel regno implacabile di Dite.
L’accompagna dimessa la Fede e sciolte le chiome
la Giustizia, e in lacrime la Concordia col mantello a brani.
Ma là dove s’apre squarciata la sede dell’Erebo,
sale in massa la schiera di Dite, l’orrida Erinni,
l’inquietante Bellona, e Megera armata di faci,
e Leto, e i Tradimenti e lo squallido fantasma della Morte.
In mezzo c’è il Furore che impazza con le redini infrante,
e il capo cruento solleva, coprendo con l’elmo cruento
il viso scavato da mille ferite. Nella sinistra regge
il logoro scudo di Marte, greve per gli infiniti dardi,
e impugna la destra minacciosa un tronco in fiamme
a spargere incendi nel mondo.
Sente gli dèi la terra, e gli astri cercano il peso di un tempo
nell’ordine sconvolto, perché tutta la reggia del cielo
si affretta a spaccarsi in due parti. Dione è la prima
a sorreggere le armi di Cesare amato, e Pallade le è vicina,
e insieme va Marte, che vibra l’immensa sua asta.
Con il Grande si schierano invece Febo e la sorella
e la prole Cillenia, e il dio di Tirinto che in tutto l’eguaglia.
Squillarono le trombe e su dallo Stige Discordia
coi crini discinti alta levò la sua testa d’inferno.
In bocca il sangue è un grumo e piangono lividi gli occhi,
i denti li incrostava una ruggine scabra, è marcia la lingua,
avvolta di serpi la faccia, il petto stretto in una lacera veste,
mentre la destra tremante brandiva una torcia con bagliori di sangue.
Com’ella lasciò il Tartaro e il Cocito avvolto nell’ombra,
con passi possenti raggiunge i gioghi del fiero Appennino,
di dove scrutare potesse tutte le terre e i lidi
e ovunque nel mondo brulicanti le caterve di armati,
e cotali parole riversa dal petto in fermento:
“Prendete o genti le armi, infiammatevi d’odio
e gettate con forza le torce nel cuore delle città!
Chi si cela cadrà: non rifiuti lo scontro la donna,
non fanciullo, non vecchio, se pure prostrato dagli anni,
ma tremi la terra stessa e insorgano i tetti in rovina.
Tu Marcello difendi la legge. Tu Curione aizza la plebe.
Non frenare, tu Lentulo, l’infuriare di Marte.
Ma perché dunque, tu figlio di dèi, tanto indugi nell’armi,
e non schianti le porte e non spezzi i bastioni ai castelli,
e tesori non strappi? E tu, o Grande, non sai proteggere
le rocche di Roma? Rifùgiati dentro Epidamno,
e con sangue di uomo tingi i tessali golfi!”.
E sulla terra accadde ciò che Discordia volle».
*
E mentre Eumolpo terminava con grande scioltezza di lingua la sua tirata
in versi, finalmente entrammo a Crotone. Qui, dopo esserci rimessi un po’
in sesto in un alberghetto, il giorno seguente, mentre ci stavamo cercando
una sistemazione un po’ più decorosa, ci imbattemmo in un gruppo di
cacciatori di eredità, che ci chiesero chi fossimo e da dove venivamo.
Attenendoci a quanto concertato nel piano, rispondemmo rifilando loro un
sacco di frottole, riuscendo tranquillamente a convincerli sulla nostra
identità e sulla nostra provenienza. E tra di loro fu subito una lotta
accanita per mettere a disposizione di Eumolpo i propri beni.
*
Tutti quei cacciatori di eredità facevano a gara a colpi di regali per
conquistarsi la simpatia di Eumolpo.
*
125 Era già da un bel pezzo che noi ce la spassavamo in quel modo a
Crotone, ed Eumolpo, al settimo cielo dalla felicità, non si ricordava già
più della sua condizione passata, al punto che cominciava a vantarsi con
gli intimi dicendo che lì nessuno era in grado di resistergli e che se in
quella città qualcuno dei suoi compari avesse commesso qualche reato,
l’avrebbe passata liscia grazie all’influenza delle sue conoscenze. Io,
però, anche se passavo la giornata a rimpinzarmi con tutto quel ben di dio
che avevamo in eccesso ed ero ormai quasi convinto che la sfortuna avesse
smesso di braccarmi come un cane, ciò non ostante pensavo spesso alla mia
presente condizione e a come ci fossi arrivato. «Ma come la mettiamo se
uno di questi sciacalli un po’ più furbo degli altri spedisce un
investigatore in Africa e scopre la nostra messinscena? E se il servo di
Eumolpo, nauseato da questo benessere, si lascia scappare qualcosa coi
suoi amici, e da invidioso qual è ci tradisce svelando tutta la frode?
Sicuramente bisognerebbe di nuovo alzare i tacchi e, proprio adesso che ci
siamo scrollati di dosso la miseria, ci toccherebbe vivere da pezzenti. O
dèi e dee, certo che è dura la vita dei fuorilegge! Sono sempre lì ad
aspettarsi che arrivi quel che si meritano». |[continua]|

*
|[SATIRICON, 5]|
126 CRISIDE, ANCELLA DI CIRCE, A POLIENO. «Siccome lo sai di essere
irresistibile, sei pieno di te, e i tuoi abbracci li vendi, invece di
farne dono. A cosa ti servono tutti quei bei riccioli, quella faccia
ritoccata dai cosmetici, quel tuo sguardo birichino, quel tuo sculettare
ad arte, con passettini studiati apposta, se non per pubblicizzare le tue
qualità per poi metterle in vendita? Stammi bene a sentire: io non sono
una di quelle che sanno tutto di oroscopi e stanno a sentire gli
astrologi, ma mi basta guardare in faccia le persone per capire che tipi
sono, e se poi li vedo anche fare due passi sono capace di dirti pure
quello che pensano. Bando alle ciance: sia che tu venda quello che cerco
(e il compratore è già bello e pronto), sia – e sarebbe anche più carino
da parte tua – che lo regali, datti da fare perché io ti sia grata. Se poi
vai a raccontare in giro di essere uno schiavo e un morto di fame, guarda
che accendi una ch’è già abbastanza in calore. Perché ci sono delle tipe
che si eccitano solo con la feccia: gli basta vedere un servo o uno
stalliere con la veste tirata un po’ su, e si infiammano subito. Altre,
invece, le manda in fregola il circo, o un mulattiere impiastricciato di
polvere, o ancora un attorucolo che si sia fatto un nome calcando le
scene. La mia padrona è una di queste: lei salta oltre le quattordici file
dei posti riservati nell’orchestra, per andarsi a prendere in mezzo alla
gentaglia qualcuno che la faccia andare su di giri».
Ringalluzzito da tutte quelle lusinghe, io le dissi: «Ma dimmi un po’,
saresti tu quella che spasima per me?». Ma la ragazza scoppiò a ridere a
quella freddura e replicò: «Vacci piano con le arie. Finora, a letto con
un servo non ci sono mai andata, e prego gli dèi di evitarmi rapporti
intimi con gente destinata alla croce. Con tipi come quelli se la vedano
un po’ le signore bene, che i segni delle frustate se li baciano pure.
Quanto a me, con tutto che sono solo una serva, se non sono almeno dei
cavalieri, non mi ci metto». Io rimasi a bocca aperta di fronte a una
simile differenza di gusti, e non riuscivo a darmi pace che un’ancella
avesse la superbia di una signora, e una signora la bassezza di
un’ancella.
Dopo esserci scambiati ancora un bel po’ di battute, chiesi all’ancella di
portarmi la sua padrona nel boschetto di platani. L’idea le andò a genio
e… si tirò su per bene la tunica andandosi a infilare in mezzo alle
macchie di alloro che costeggiavano il vialetto. Un attimo dopo riemerse
dal nascondiglio insieme alla sua padrona, e io mi ritrovai accanto una
donna che era meglio di qualunque statua. Per descriverne la bellezza non
ci sono parole adeguate, perché tutto quello che potrei tirar fuori non
sarebbe all’altezza della realtà. I capelli naturalmente ondulati le si
spargevano ovunque sulle spalle, pettinati all’indietro a partire dalla
fronte minuta, mentre le sopracciglia le correvano fino alla linea delle
guance andandosi quasi a unire tra gli occhi, che erano più limpidi delle
stelle nelle notti senza luna, il naso era appena arcuato e le labbrucce
come quelle che Prassitele immaginò avesse Diana. Per non dire del mento,
del collo, delle mani e dei piedi, così bianchi tra i giri di una catenina
dorata, che il marmo di Paro avrebbe sfigurato al confronto. E così, fu
allora che per la prima volta mi sembrò di non provare più nulla per
Doride, la mia fiamma di un tempo.
*
Che ti succede, o Giove, che gettate a terra le armi
resti tacito in mezzi agli dèi, tu idolo muto?
Era questo il momento di ornare la fronte tua torva di corna
e nascondere i bianchi capelli con candide piume.
Ecco la vera Danae. Ma tu sfiorale il corpo soltanto,
si scioglieranno le membra per ardore di fiamma che brucia.
*
127 Estasiata dal mio madrigale, la donna sorrise in maniera così soave da
sembrarmi la luna quando fa capolino da una nube con la sua faccia piena.
Poi, accompagnando con gesti le parole, disse: «Se non disdegni, o bel
giovine, una donna di classe che quest’anno ha conosciuto per la prima
volta l’uomo, io ti offro l’amore di una sorella. So che tu hai già un
fratellino – lo ammetto, ho preso qualche informazione -, ma chi ti
impedisce di adottare anche una sorella? A me basta stare sul suo stesso
piano. Tu dègnati solo, quando te ne vien voglia, di provare anche i miei
di baci». «Anzi» replicai, «sono io che ti scongiuro, in nome della tua
bellezza, di voler ammettere tra i tuoi spasimanti uno straniero. Se ti
lasci adorare, vedrai come sono devoto. E perché tu non debba pensare che
io voglia entrare gratis nel tempio d’Amore, accetta in dono il mio
fratellino». «Ma come» replicò lei, «mi regali questo bel ragazzino senza
il quale non puoi vivere e dalle cui labbra pendi, questo qui che tu ami
come io vorrei essere amata da te?». Mentre pronunciava queste parole, la
sua voce era accompagnata da una tale grazia, e un suono così dolce
carezzava l’aria, che sembrava di sentire nell’aria l’armonioso canto
delle Sirene. E mentre ero lì in estasi che la contemplavo e tutto il
cielo intorno brillava di un non so che di più splendente, volli sapere il
nome di quella dea. «E così» disse lei «la mia ancella non ti ha detto che
mi chiamo Circe? Ma non sono figlia del Sole, e mia madre non fermò, a
piacer suo, il corso del mondo. Eppure, se il destino vorrà vederci uniti,
avrò lo stesso motivo di render grazie al cielo. Anzi, penso che un dio
sia già all’opera con non so quali suoi taciti progetti. E non è senza un
motivo che Circe ama Polieno: da sempre tra questi due nomi divampa una
grande passione. Avanti, se ne hai voglia prendimi pure, e non temere se
qualcuno ci vede, perché tanto il tuo fratellino non c’è». Così disse
Circe e, abbracciandomi con quelle sue braccia morbide come la piuma, mi
attirò a terra su un prato che era tutto colori.
Come i fiori che in vetta dell’Ida cosparse
la madre Terra, nel giorno in cui Giove si unì
al suo legittimo amore e l’ardere delle fiamma sentì nel petto:
brillarono le rose, le viole e il cipero dolce,
e risero i bianchi gigli sul verde del prato:
così ci invitava all’amplesso la terra su soffici erbe,
e candido il giorno inneggiava all’amore segreto.
Ugualmente avvinghiati in quel prato, ci divoravamo in un gioco di baci,
nell’attesa del piacere più intenso.
128 CIRCE A POLIENO. «Ma cosa t’è preso?» sbottò a un tratto. «Forse ti
danno fastidio i miei baci? Non avrò per caso l’alito cattivo per colpa
del digiuno? O del sudore rancido sotto le ascelle? Ma se non è così, e lo
credo, non sarà mica perché hai paura di Gitone?». E io, tutto rosso in
faccia per la vergogna, persi anche quel poco di forze che mi restavano, e
col corpo che mi si afflosciava dissi: «Non schernire, ti prego, o regina,
le mie sventure: qui mi sa che sono vittima di una fattura».
*
CIRCE. «Criside, sii sincera, dimmi la verità: sono brutta? Non sono
vestita come si deve? C’è qualche difetto che offusca la mia bellezza? Non
ingannare la tua padrona. Non lo so proprio in cosa ho sbagliato». E dato
che la ragazza non apriva bocca, le strappò di mano uno specchio e, dopo
aver provato tutte le espressioni che la gioia di solito disegna sui volti
degli innamorati, si aggiustò un attimo il vestito spiegazzato dal
contatto con la terra e poi si infilò in fretta e furia nel tempio di
Venere. Io invece, con la faccia da condannato e i brividi dappertutto
come se avessi visto un fantasma, cominciai a chiedermi se non ero stato
defraudato del vero piacere.
Così, nel sopore della notte, quando i sogni c’illudono
gli occhi errabondi e la terra sventrata ci mostra
alla luce dell’oro, rapace la mano soppesa il tesoro
e lo rapisce, sul volto si spande il sudore, stringe
il cuore la paura che possa qualcuno scoprire
il segreto e ci strappi dal grembo il bottino.
Quando poi l’illusione svanisce e al vero ritorna
la mente, brama l’animo ciò che ha perduto,
e nel sogno scomparso con tutti i suoi sensi s’aggira.
*
GITONE A ENCOLPIO. «E così ti ringrazio davvero per questo tuo amore
socratico che hai verso di me. Nemmeno Alcibiade dormì così intatto nel
letto del suo precettore».
*
129 ENCOLPIO A GITONE. «Mi devi credere, caro fratellino mio, ma mi sembra
di non essere nemmeno più un uomo, di non provare più nulla. È ormai morta
e sepolta quella parte del mio corpo, dove prima io ero un Achille».
*
Siccome il ragazzino temeva di dar adito a chiacchiere se lo trovavano lì
con me, schizzò via come una furia e andò a rintanarsi nell’angolo più
lontano della casa.
*
Ma a entrare nella mia stanza fu invece Criside, che mi consegnò un
biglietto della sua padrona nel quale c’era scritto: «Caro Polieno, se io
fossi una che bada solo ai sensi, sarei qui a lamentarmi per la delusione.
Devo invece ringraziare la tua debolezza, perché mi ha permesso di godermi
più a lungo i preliminari. Vorrei però sapere come ti senti e se a casa ci
sei ritornato con le tue gambe, visto che, stando a quanto dicono i
medici, senza nervi non si cammina più. Ascoltami bene, tesoro, occhio
alla paralisi, perché uno mal preso come te non l’ho mica mai visto. Sei
già mezzo spacciato, e se quel gelo ti arriva alle ginocchia e alle mani,
puoi pure chiamare le pompe funebri. E allora? Anche se è grave l’offesa
che ho ricevuto, non voglio negare la medicina a uno che sta così male. Se
vuoi guarire, raccomandati a Gitone. Ti garantisco, riacquisterai le
forze, se solo per tre notti non vai a letto col fratellino. Quanto a me,
niente paura: se la fama e lo specchio non mi ingannano, qualcuno cui
piacere lo trovo ancora. Stammi bene, se ci riesci».
Quando Criside vide che avevo finito di leggere quella presa in giro,
disse: «Ma dài, son cose che succedono. Specie in questa città, dove le
donne son capaci di tirarti giù perfino la luna dal cielo… Tranquillo
che un rimedio lo troviamo. Tanto per cominciare, rispondi alla padrona
buttandole giù qualche parola carina, e restituiscile coraggio col candore
della sincerità. Perché è meglio ti dica come stanno le cose: da quando ha
subito l’offesa, la mia padrona è fuori di sé». Seguii di buon grado il
consiglio della ragazza e misi per iscritto quanto segue:
130 «Polieno a Circe: salve! Ti confesso, o mia regina, di aver peccato
parecchio, ma sono un uomo e per giunta giovane. Prima di oggi però non
ero mai incappato in un peccato mortale. Eccoti qua davanti un reo
confesso: qualunque sia il tuo verdetto, sarà meritato. Mi son macchiato
di tradimento, ho ucciso un uomo e ho profanato un tempio: trova tu un
adeguato castigo per questi misfatti. Se ritieni che io debba morire,
verrò da te con la mia spada; se ti basterà farmi frustare, allora correrò
nudo dalla mia regina. Ricòrdati però di una cosa soltanto: non son stato
io a fallire, ma l’arnese. Il soldato era pronto, sono state le armi a
mancare. Chi abbia provocato il pasticcio, lo ignoro. Forse la smania
interiore ha preso sul tempo gli indugi del corpo; o forse, volendoti
tutta godere, ho sprecato il piacere prima del tempo. Non riesco a capire
che diamine ho combinato. Mi dici poi di stare attento alla paralisi: come
se ce ne fosse una ancora peggiore di questa, che mi ha impedito di farti
mia. Eccoti però il succo delle mie scuse: vedrai che saprò soddisfarti,
se solo mi darai modo di rimediare alla mia colpa».
*
Dopo aver congedato Criside con questa promessa, mi presi cura con ogni
attenzione di quello sciagurato mio corpo, iniziando col ricorrere a un
leggero massaggio, invece del solito bagno. Poi buttai giù della roba
afrodisiaca, cioè cipolle e teste di lumaca senza salsa, con meno vino del
solito. Poi, dopo aver fatto due passi, mi infiliai a letto senza Gitone.
La voglia di far pace con Circe era così forte, da temere che il
fratellino mi sfiorasse anche solo col fianco.
131 Il giorno dopo, essendomi alzato senza più alcun disturbo di natura
fisica e psicologica, mi recai di nuovo in quello stesso viale coi
platani, anche se ormai avevo il sospetto che si trattasse di un posto un
po’ iellato, e rimasi lì tra gli alberi ad aspettare Criside che mi
indicasse la strada. Stanco di andare su e giù, mi ero seduto nel punto
del giorno prima ed eccola arrivare in compagnia di una vecchietta. E dopo
avermi salutato, mi disse: «E allora, pagliaccio, oggi andiamo un po’
meglio?».
*
La vecchia, intanto, tirò fuori dal grembo un cordoncino intrecciato con
fili di diverso colore e me lo legò al collo. Poi raccolse col dito medio
un po’ di terriccio, ci sputò sopra e mi tracciò dei segni sulla fronte,
anche se io cercavo di oppormi schifato…
*
Dopo aver pronunciato questa formula magica, la vecchietta mi ordinò di
sputare tre volte e di tirarmi per tre volte contro il petto dei sassolini
incantati che aveva portato avvolti in uno straccetto di porpora. Poi,
allungando le mani, cominciò a manipolarmi l’affare, che obbedì
all’istante, gonfiandosi e indurendosi in maniera così spettacolare da
riempire le mani della vecchia, che esultante esclamò: «Guarda un pochino,
Criside mia, che bel leprotto ti ho stanato perché un’altra se lo goda!».
*
Il platano mobile l’ombra estiva diffonde,
e il tremulo cipresso, e Dafne coperta di bacche,
e pini potati dalle cime ondeggianti.
Lì in mezzo giocavano le acque errabonde di un rivo
spumoso, smeriglio dei ciottoli le querule onde.
Un luogo degno d’amore: ne davano conferma l’aedo silvestre
e Procne l’urbana, che a volo sui prati d’intorno
e su tenere viole un inno levavano ai campi.
*
Mollemente adagiata sul letto, lei poggiava il suo collo marmoreo su un
cuscino dorato, e con un mirto in fiore si faceva vento lentamente. Appena
mi vide, arrossì un pochino, memore forse del brutto scherzo che le avevo
fatto il giorno prima. Quando però tutti i presenti si ritirarono e mi
invitò a sdraiarmi accanto a lei, mi coprì gli occhi con il rametto e,
quasi resa più sbarazzina da quella specie di schermo tra di noi, disse:
«E allora, mio bel paralitico, oggi sei venuto tutto intero?». «Perché fai
tante domande» replicai io «invece di toccare con mano?». E abbandonatomi
tutto nel suo abbraccio, ormai senza bisogno di incantesimi, andai avanti
a baciarla fino a non poterne più.
*
132 ENCOLPIO A PROPOSITO DEL FANCIULLO ENDIMIONE. Con la sola bellezza del
suo corpo che per me era tutto un invito, lei mi attirava al piacere. Già
sulle nostre labbra fioccavano fitti i baci, già le mani intrecciate si
erano avventurate in ogni tipo di carezze amorose, già i nostri corpi
allacciati si erano fatti un respiro solo.
*
Esasperata da un fiasco tanto palese, la signora si decise alla fin fine a
punirmi: e così, chiamati i domestici, dà ordine di appendermi per i piedi
e frustarmi. Ma non contenta di avermi già umiliato in quel modo, chiama
le sue schiave addette al telaio e la feccia della servitù, invitando
tutti a coprirmi di sputi. Io mi metto una mano sugli occhi e, senza
lasciarmi scappare una sola parola di supplica perché sapevo di
meritarmelo in pieno, vengo scaraventato fuori in una gragnuola di calci e
di sputi. Insieme a me cacciano anche la vecchia Proseleno, e Criside si
busca la sua bella razione di botte, mentre tutti i servi bisbigliano
preoccupati tra loro, chiedendo chi mai abbia fatto uscire dai gangheri la
padrona, che un attimo prima così di buon umore.
*
Così, rinfrancato al pensiero che anche gli altri le avevano prese,
nascosi abilmente i segni delle frustate, per evitare che Eumolpo se la
ridesse dei miei guai e che Gitone se ne rattristasse. Facendo perciò
l’unica cosa possibile per salvare la faccia, finsi di non sentirmi bene
e, cacciatomi a letto, scatenai tutta la mia rabbia contro l’arnese, unico
e vero responsabile di quella serie di disavventure.
Strinsi in mano tre volte la scure terribile,
tre volte temetti il ferro che male la mano reggeva,
rammollito com’ero più di un torso di cavolo.
Né più avrei potuto infligger la pena che pure volevo.
Infatti l’arnese, spaurito e più freddo del ghiaccio,
si era ritirato nella pancia coperto da innumeri grinze.
Né potei la cappella scoprirgli per dar mano al supplizio,
ma beffato dal terrore mortale di tale pendaglio da forca,
mi tuffai negli insulti che più lo potevano ferire.
Appoggiandomi dunque sul gomito, indirizzai a quel contumace un’invettiva
grosso modo così: «Cos’hai da dire, vergogna di tutti gli uomini e di
tutti gli dèi? Infatti in un discorso serio non è corretto nemmeno
nominarti. Cosa ti avrei mai fatto perché tu mi trascinassi all’inferno
dal paradiso in cui mi trovavo? Perché tu mi togliessi il fiore degli anni
nel suo primo rigoglio, per mettermi addosso lo sfinimento dell’estrema
vecchiaia? Avanti, dammi anche solo una prova che almeno ci sei». Mentre
così mi sfogavo,
Volgendo il capo, a terra gli occhi teneva,
e la faccia non tradiva ombra di movimento alle mie parole,
più di un salice molle o di un papavero dal gambo appassito.
Eppure, appena finita quella penosa tirata, cominciai a provare rimorso
per quanto avevo appena detto e ad arrossire tutto dentro di me, perché,
lasciando da parte ogni traccia di pudore, mi ero messo a parlare con
quella parte del corpo che la gente a modo non ammette nemmeno di avere.
Ma poi, dopo una lunga grattata di testa, mi dissi: «Ma, in fin dei conti,
che male c’è se ho sfogato la mia rabbia con un po’ di parolacce? Non è
forse la stessa cosa quando, sempre accanendoci col nostro corpo,
imprechiamo contro la pancia o la gola o la testa, quando ci fanno male
troppo spesso? Ulisse non litiga forse col proprio cuore, e certi
personaggi della tragedia non se la prendono con gli occhi, come se quelli
potessero starli a sentire? I gottosi poi maledicono i piedi, gli
artritici le mani, i cisposi gli occhi, mentre quelli che prendono una
botta al dito, scaricano la rabbia contro i piedi, come se fosse tutta
colpa loro:
Perché mai mi squadrate con la fronte accigliata, o Catoni,
e condannate un’opera fresca come i tempi che corrono?
Sorride serena la grazia di uno stile spontaneo,
e quello che il popolo fa, chiara la lingua lo dice.
Chi è all’oscuro del sesso, e chi ignora le gioie di Venere?
Chi mai nega che i corpi si incendino nel caldo del letto?
Anche il padre del Vero, il saggio Epicuro, lo ingiunse,
e disse che questo è lo scopo finale della vita.
*
«Negli uomini non c’è nulla di più falso dei pregiudizi, e nulla di più
stupido di un’austerità ipocrita».
*
133 Finita la declamazione, chiamo Gitone e gli faccio: «Ma dimmi un po’,
caro fratellino, in tutta coscienza: quella notte che Ascilto ti portò via
da me, restò sveglio fino a quando riuscì a possederti, oppure si
accontentò di una notte vedova e casta?». Il ragazzino si toccò gli occhi
e giurò nel modo più solenne di non aver subito violenza da Ascilto.
*
… e inginocchiandomi sulla soglia del tempio, rivolsi questa preghiera
al dio che mi aveva voltato le spalle:
«Delle Ninfe e di Bacco compagno, che Dione la bella
fece dio delle selve fiorenti, che regni sull’inclita
Lesbo e la verde Taso, cui innalza preghiere il Lido
dai sette fiumi, e dedica templi in Ipepa,
vieni qua, protettore di Bacco e amore delle Driadi insieme,
e ascolta una timida prece. Non vengo cosparso
di sangue funesto, né mai i tuoi templi violai
con sacrilega mano, ma misero e messo alle strette,
se mai un delitto commisi, non fu con il corpo mio tutto.
Minore è la colpa di chi pecca per debolezza. Per questo,
ti prego, l’animo mio solleva e indulgi a un peccato minore,
che, se mai mi sorrida un’ora di buona fortuna,
il tuo nume io non lascerò senza onori. All’ara tua andranno,
o divino, il capro, il padre cornuto del gregge,
e vittima ancora lattante, il parto di querula scrofa.
Nei calici spumeggerà il vino dell’anno, e tre volte
danzando i giovani ebri il giro del tempio faranno».
*
Mentre son lì che recito questa preghiera, senza mai togliere gli occhi
dal caro estinto tra le gambe, entra nel tempio una vecchia orripilante,
coi capelli scarmigliati e una veste nera addosso, che mi abbranca e mi
porta fuori dal tempio.
*
134 LA VECCHIA PROSELENO A ENCOLPIO. «Che razza di streghe ti hanno
mangiato i nervi, o quale schifezza o cadavere hai calpestato nel cuor
della notte a un crocicchio? Nemmeno con il ragazzo sei riuscito a rifarti
ma, molle, fiacco e scoppiato come un ronzino in salita, ci hai rimesso
soltanto fatica e sudore. E non contento di essere già tu in peccato, hai
messo gli dèi anche contro di me».
*
E poi, senza che io facessi alcuna resistenza, mi trascinò di nuovo nella
cella della sacerdotessa, mi cacciò sul letto e, dopo aver afferrato una
canna dietro la porta, cominciò a darmele di santa ragione, senza che io
avessi il coraggio di reagire. E se la canna non si fosse rotta quasi
subito, diminuendo così la violenza dei colpi, probabilmente quella mi
avrebbe fratturato testa e braccia. A piagnucolare cominciai invece quando
lei si mise a trafficare con l’arnese e, mentre le lacrime mi rigavano il
volto, caddi riverso sul cuscino nascondendomi la faccia con la destra.
Allora anche la vecchia scoppiò a piangere e, sedutasi sull’altra sponda
del letto, cominciò a lamentarsi, con voce tremula, di quanto le pesassero
tutti i suoi anni, finché non intervenne la sacerdotessa: «Che ci fate
voialtri» ci investì, «qui nella mia cella? Non l’avrete mica presa per
una tomba ancora fresca? E per giunta in un giorno festivo, quando ride
anche chi dovrebbe piangere?».
*
PROSELENO AD ENOTEA, SACERDOTESSA DI PRIAPO «O Enotea» le si rivolse la
vecchia, «questo giovanotto qui è nato davvero sotto una cattiva stella:
figurati che non riesce a piazzare la sua mercanzia né agli uomini né alle
donne. Un disgraziato come questo non l’hai mai visto: al posto
dell’affare là sotto, ci ha un’anguilla marinata. Per fartela breve, che
cosa mi dici di uno che si è alzato dal letto di Circe senza aver
goduto?». Udite queste parole, Enotea prese posto in mezzo a noi e, dopo
aver scosso per un bel po’ la testa, disse: «Io sono l’unica che può
guarirlo da questa malattia: e per dimostrarvi che non parlo a vanvera,
chiedo che questo tuo giovanotto dorma con me una notte, e poi vediamo se
non glielo faccio ritornare duro come un corno:
Tutto ciò che vedi al mondo, mi si inchina. La florida terra
se voglio la faccio languire arida, con tutte le linfe essiccate,
se voglio, lei spande i suoi beni e rocce selvagge e macigni
eruttano acque del Nilo. A me il mare sottomette
gli inerti marosi, e innanzi ai miei piedi gli zefiri fermano
taciti i soffi. A me obbediscono i fiumi, le tigri d’Ircania,
e i draghi immobili a un cenno. Perché mai parlare di cose
da nulla? La mia voce d’incanto fa scendere dal cielo la Luna,
e Febo sgomento costringo a mutare il suo corso, volgendo
a ritroso i suoi bai furibondi.
A tanto giungono gli scongiuri. L’ardore dei tori si placa,
bloccato da riti di vergine, con magici filtri la figlia
di Febo che è Circe trasforma i compagni di Ulisse,
e Proteo assume l’aspetto che vuole. Esperta ch’io sono
in quest’arte, sul fondo dei mari trapianto i boschi dell’Ida,
e l’acqua dei fiumi sospingo alle vette più alte.
135 Rabbrividii atterrito da tutte quelle incredibili promesse e cominciai
a osservare con maggiore attenzione la vecchia.
*
«Avanti» esclama Enotea, «eseguite i miei ordini!»…
*
e dopo essersi lavata con cura le mani, si chinò sul letto e mi baciò due
volte…
*
Enotea piazzò una vecchia tavola in mezzo all’altare, ci sistemò sopra dei
carboni ardenti, e quindi, dopo aver sciolto un po’ di pece, riparò una
vecchia scodella tutta forata. Poi riattaccò alla parete affumicata il
chiodo che era venuto giù mentre prendeva la ciotola di legno. Quindi,
dopo essersi legata ai fianchi un grembiule quadrato e aver sistemato sul
fuoco una grossa pentola, servendosi di un forchettone tirò giù dalla
dispensa un sacchetto con dentro delle fave pronte per l’uso e una testina
di maiale già tutta rosicchiata. Aperto il sacco, distribuì sulla tavola
una parte delle fave e mi intimò di pulirle per bene. Io le obbedisco e,
mettendoci dell’impegno, comincio col mettere da parte quelle che dalla
buccia sembravano ammuffite. Ma lei, dandomi del buono a nulla, raccoglie
quella robaccia e, strappandone le bucce con i denti, le sputa per terra,
che sembravano tante mosche.
*
Dal canto mio, ero sbalordito al vedere quanto la povertà aguzzi l’ingegno
e come ogni singolo aspetto possa esser sfruttato col senso pratico:
L’avorio dell’India non splendeva montato nell’oro,
né di lastrici in marmo pregiato brillava la terra
privata dei suoi tesori, ma solo una stuoia di salice
e fasci di povera paglia, e tazze ancor fresche d’argilla,
che un ruvido tornio aveva forgiato alla buona.
Per l’acqua un catino, e ceste di vimini appese
a un ramo flessuoso, e un’anfora sporca di vino.
E al muro lì intorno di paglia e di fango commesso
infissi vedevi dei rustici chiodi, e appesa
a un giunco nel pieno del verde un’esile canna.
Inoltre da un trave fumoso dell’umile casa pendevan
le scorte, e dolci sorbe oscillavano in trecce odorose
intrecciate, e santoreggia lasciata invecchiare,
e grappoli d’uva passita. Al pari ospitale fu un giorno
la casa d’Ecale nell’Attica, degna di culti sacrali,
che il verso del vecchio Battiade a noi nel memore corso
degli anni trasmise a un’età che sapesse ammirarlo.
*
136 Mentre lei è alle prese con un pezzettino di carne e col forchettone
cerca di riappendere in dispensa quella testina che, occhio e croce,
doveva avere la sua età, lo sgabello tarlato sul quale era salita per
arrivare fin lassù si sfascia e manda a gambe levate la vecchia, facendola
planare con tutto il suo peso sul focolare. Di conseguenza si spacca anche
l’orlo della pentola e il fuoco, che stava già per prendere, si spegne.
Lei centra col gomito un tizzone ardente e la cenere che si solleva le
sporca tutta la faccia. Io salto su in piedi tutto spaventato e, non senza
sghignazzare, aiuto la vecchia a tirarsi su… e, per evitare ritardi al
sacrificio, va subito dai vicini a farsi dare il necessario per
riattizzare il fuoco.
Io allora mi diressi verso l’ingresso della stamberga… quand’ecco che
tre oche sacre, abituate intorno a mezzogiorno – mi immagino – a reclamare
il becchime dalla vecchia, mi si avventano addosso e mi circondano da ogni
parte, spaventandomi pure con un orrendo e rabbioso strepito. Una mi fa a
pezzi la tunica, un’altra mi slega le stringhe dei calzari e se li porta
via, mentre una terza, che guidava quell’assalto in piena regola, non
esita a straziarmi un polpaccio col suo becco seghettato. Siccome di quel
brutto scherzo non ne potevo davvero più, strappai una gamba alla tavola e
cercai di liberarmi a mano armata da quella bestiaccia inferocita. E non
mi limitai a qualche semplice colpo dimostrativo, ma mi vendicai
stendendola morta al suolo:
Così costretti dall’astuzia di Eracle, credo, al cielo fuggirono
gli uccelli Stinfalidi, e rapide come corrente le Arpie quando a Fineo
lordarono i tavoli stillando veleno sulle false mense.
Tremò la volta celeste, squassata alle insolite grida,
e fu scossa la reggia del cielo.
*
Nel frattempo le altre due oche si erano spazzolate le fave che, rotolando
sul pavimento, si erano sparse dovunque e, sconfortate dalla perdita di
quella che a mio avviso doveva essere il capo, se ne erano tornate nel
tempio, quando io, raggiante per essermi rifatto portando via anche del
bottino, nascondo dietro il letto l’oca uccisa e mi disinfetto con un po’
di aceto la ferita non troppo profonda alla gamba. Per paura poi di
doverla pagare cara, pensai bene di togliere il disturbo e, raccolta la
mia roba, feci per uscire dalla stamberga. Ma non ne avevo ancora varcato
la soglia, che vidi Enotea tornare sui suoi passi con un recipiente pieno
di braci. Tirai subito indietro il piede e, dopo essermi tolto di nuovo il
mantello, rimasi lì sulla porta, come se stessi aspettando il suo arrivo.
Lei allora sistemò un po’ di brace sotto le canne, ci mise sopra molta
legna e cominciò a scusarsi del ritardo, dovuto a una vicina che non
l’aveva lasciata andare via se non dopo aver buttato giù i soliti tre
bicchierini. «E tu» disse poi «che hai fatto mentre non c’ero? E le fave
dove sono finite?». Convinto com’ero di aver compiuto chissà quale
prodezza, le raccontai per filo e per segno tutta la storia della
battaglia e, perché non stesse a pensarci troppo, le offrii l’oca come
risarcimento al danno subito. Ma non appena la vecchia la vide, si mise a
strillare così tanto e così forte, da dar l’impressione che le oche
fossero di nuovo lì sulla porta. Impressionato, allora, e sbalordito da
come si stava mettendo la faccenda, le chiesi perché mai si fosse scaldata
tanto e perché si preoccupasse più dell’oca che di me.
137 Ma lei, battendo forte le mani, mi urlò: «Razza di criminale, e hai
anche la faccia tosta di parlare? Tu non ti rendi mica conto di che
infamia ti sei macchiato: hai ucciso la gioia di Priapo, un’oca che faceva
impazzire tutte le signore. Non credere quindi che sia una cosa da poco,
perché se solo lo vengono a sapere i magistrati, finisci dritto sulla
croce. Hai profanato col sangue la mia dimora fino a oggi inviolata, e hai
fatto in modo che chiunque lo voglia fra i miei nemici possa farmi
espellere dal sacerdozio».
*
«Per carità» le dico io, «non gridare: in cambio dell’oca ti farò avere
uno struzzo».
*
Mentre me ne sto lì imbambolato a fissarla seduta sul letto che continua a
piangere per la morte dell’oca, entra Proseleno con la spesa fatta per il
sacrificio e, vedendo l’oca uccisa e domandando le ragioni di tutto quello
strazio, scoppia anche lei in calde lacrime e si mette a commiserare la
mia sorte, come se avessi ucciso mio padre invece di un’oca qualunque.
Alla fine, seccato da quella lagna, dico: «Ditemi un po’, non mi è
concesso espiare la colpa tirando fuori qualche soldo?… Manco se vi
avessi insultato e mi fossi macchiato di un omicidio! Eccovi qua due belle
monete d’oro, che ci potete comprare anche gli dèi insieme alle oche».
Appena Enotea vide la grana, disse: «Scusami tanto, ragazzo mio: è per te
che mi preoccupo, non lo faccio mica per cattiveria, ma solo perché ti
voglio bene. Vedrai, sistemeremo tutto, che nessuno lo venga a sapere. Tu
però prega solo gli dèi che ti perdonino per la bella impresa che hai
fatto.
Veleggi col vento in poppa chi ha denaro,
e regoli la sorte secondo il suo piacere.
Se in moglie prende Danae, ad Acrisio persino
farà credere quel che Danae ha creduto.
Scriva versi, declami e lo applaudano tutti,
e se cause discute, superi anche Catone.
Se fa il giudice, abbia il “consta” e il “non consta”,
e sia almeno alla pari di Servio e Labeone.
Ne ho già dette abbastanza: coi contanti ciò che vuoi
te lo danno. Ogni scrigno ha dentro il suo Giove».
*
Mi mise in mano una ciotola piena di vino e, dopo avermi pulito con porri
e prezzemolo le dita della mano distese in avanti, immerse pregando delle
nocciole nel vino. E a seconda che tornassero o meno a galla, lei tirava
fuori il pronostico. Ma io capivo benissimo che a galla rimanevano le
nocciole vuote e senza midollo (perché dentro non avevano niente), mentre
quelle piene e con il frutto intatto andavano giù.
*
Dopo aver squartato l’oca, ne tirò fuori un fegato robustissimo, che le
servì per predirmi il futuro. Anzi, per evitare che rimanessero tracce del
mio delitto, fece a pezzi tutta la bestia e, dopo averli infilati su
spiedi, organizzò una cenetta non male, in onore proprio di quello che, a
sentire lei, fino a un attimo prima era a un passo dal patibolo. Nel
frattempo fioccavano uno dietro l’altro dei bei bicchieri di vino puro.
*
138 Enotea tira fuori un fallo di cuoio e, dopo averlo cosparso ben bene
di olio, pepe in polvere e semi di ortica tritati, incomincia lentamente a
infilarmelo nel didietro.
Un attimo dopo la dannata vecchiaccia mi versa quello stesso intruglio tra
le cosce.
*
Poi mescola succo di nasturzio con abrotono e, dopo avermi lavato i
genitali con quella mistura, prende un fascio di ortiche verdi e comincia
a frustarmi a ritmo lento dall’ombelico in giù.
*
Le due vecchiette, belle che andate com’erano per il vino e la foia, mi si
slanciano dietro e, inseguendomi giù per un vicolo, gridavano: «Al ladro!
Al ladro!». Per fortuna riuscii a seminarle, non senza però essermi fatto
venire le vesciche ai piedi per tutto quel correre a rompicollo.
*
«Criside, che prima ti detestava per la condizione in cui versavi, ora che
sei così ha deciso di averti anche a costo della vita».
*
«Ma Arianna e Leda che cosa ebbero di simile a questa bellezza? Che cosa
avrebbe potuto, al suo confronto, Elena, che cosa Venere? Perfino Paride,
che fece da giudice tra quelle dee infoiate, se nel pieno di quella gara
avesse visto i suoi occhi che ammaliano, per lei avrebbe dato Elena e
tutte le dee messe insieme. Ah, se mi riuscisse soltanto di strapparle un
bacio, di stringere a me quel petto meraviglioso e divino, forse il mio
fisico tornerebbe al vigore di un tempo, e risusciterebbe quella parte che
mi hanno, credo, addormentato con un maleficio. Le umiliazioni subite non
mi tolgono lo slancio: le bastonate che ho preso non me le ricordo
neppure, se mi ha cacciato fuori lo ha fatto per scherzo. Se solo potessi
rientrare nelle sue grazie!».
*
139 Cominciai a dimenarmi freneticamente nel letto, come se avessi avuto
tra le braccia il mio amore.
*
«Non me soltanto un nume e il fato implacabile
tormenta. Prima di me il Tirinzio, colpito dall’ira
di Inaco, resse il peso del cielo, già Pelia
il rancore provò di Giunone, e Laomedonte cinse
ignaro le armi, Telefo di due numi saziò l’ira
terribile, e Ulisse temette la forza di Nettuno.
Me pure per tutte le terre, sui mari del bianco Nereo
incalza feroce la collera dell’ellespontiaco Priapo.
*
Chiesi al mio Gitone se qualcuno mi aveva cercato. “Oggi nessuno” rispose
lui, «ma ieri è venuta qui una donna mica male che, dopo aver parlato un
bel po’ con me tormentandomi con un sacco di domande, alla fine ha
attaccato a dire che l’avevi fatta grossa e che, se solo la parte lesa
perseverava nell’accusa, ti sarebbe toccata la pena degli schiavi».
*
Non avevo ancora finito di fare le mie rimostranze, quando arrivò Criside
che, avvinghiandosi a me in un abbraccio selvaggio, urlò: «Finalmente sei
mio, come ho tanto sperato! Tu mio unico desiderio, mio solo amore. Questo
fuoco che mi divora, non potrai mai estinguerlo, se non col sangue».
*
All’improvviso arrivò uno dei giovani appena assunti, sostenendo che il
padrone ce l’aveva da bestia con me perché erano due giorni che non mi
vedeva e avrei fatto bene a trovarmi una scusa credibile, se no era
difficile che a quel collerico passasse la rabbia senza dover arrivare
alla frusta.
*
140 Filomela, una delle signore più stimate del luogo, che in passato,
sfruttando la giovane età, aveva messo le mani su un bel po’ di eredità,
adesso che era avanti negli anni e sfiorita, appioppava il figlio e la
figlia a dei vecchi senza prole e così, nonostante il cambio di guardia,
continuava a incrementare i suoi traffici. Questa donna si presentò a
Eumolpo, per raccomandare alla sua saggezza e alla sua bontà di cuore i
propri figli… e affidare nelle sue mani se stessa e le sue speranze. Gli
disse infatti che lui era l’unico uomo al mondo in grado di educare i
giovani impartendo loro anche i migliori principi morali. Che, a farla
breve, lei lasciava i suoi due figli a casa di Eumolpo perché facessero
tesoro delle sue parole, in quanto quella era la sola eredità che era in
grado di dare ai ragazzi. E non si comportò diversamente da quanto aveva
detto: lasciò infatti lì in camera la ragazza che era un vero splendore e
il fratello che era appena adolescente, e finse di andare al tempio a fare
un voto. Eumolpo, che era così casto e puro da considerare anche me un
ragazzino, non perse tempo e invitò subito la ragazza ai sacri riti del
didietro. Ma dato che a tutti aveva detto di avere la gotta e di soffrire
di lombaggine, e se non continuava a sostenere questa tesi rischiava di
mandare a carte quarantotto tutta la sceneggiata, per dar credito alla
messinscena, pregò la piccola di andarsi a sedere su quel commendevole
segno di bontà. Al servo Corace ordinò invece di mettersi sotto il letto
su cui lui era disteso e, puntellandosi a forza di braccia sul pavimento,
di muovere su e giù con la schiena il padrone. Quello eseguì l’ordine, in
un primo tempo a ritmo lento e armonizzando il proprio movimento alle
mosse esperte della ragazza. Ma, quando si era ormai quasi sul più bello,
Eumolpo si mise a gridare a Corace di andare più svelto. E così il
vecchio, messo tra il servitore e l’amichetta, se la spassava un mondo con
quella specie di altalena. E, fra le risa di tutti cui si univano anche le
sue, Eumolpo aveva già bissato un paio di volte il giochetto. Quanto a me,
per non perdere le buone abitudini a forza di stare con le mani in mano,
mi accostai al ragazzino che stava sbirciando dal buco della serratura le
evoluzioni della sorella, e controllai se ci stava. E il ragazzino, che la
sapeva già alquanto lunga, non avrebbe rifiutato le mie attenzioni, solo
che anche lì il dio avverso mi venne a stanare.
*
«A rimettermi in sesto sono stati gli dèi maggiori. Mercurio infatti,
abituato com’è a scarrozzare avanti e indietro le anime, bontà sua mi ha
restituito ciò che una mano imbestialita mi aveva strappato, perché
adesso, come puoi constatare, vado più forte di Protesilao e di tutti
quanti gli amatori del mondo antico». E così dicendo, mi tirai su la
tunica e feci vedere il tutto a Eumolpo. Lui, sulle prime, ci rimane di
stucco. Poi, per meglio sincerarsi della cosa, si mette a palpeggiare
tutto quel ben di dio con entrambe le mani.
*
«Socrate, degli dèi e degli uomini… soleva vantarsi di non avere mai
messo il naso in un’osteria e di non essersi mai fermato a curiosare in un
assembramento di gente. Non c’è niente di meglio che intrattenersi sempre
con i saggi».
«Tutto questo» risposi io «è vero. Infatti nessuno è destinato a fare in
fretta una brutta fine, più di quelli che mettono gli occhi sulle cose
degli altri. Ad esempio, di che cosa vivrebbero ladri e vagabondi, se non
avessero con sé scrigneti e borselli con monete sonanti da buttare come
esca alla gente? Come i pesci abboccano attirati dall’esca, allo stesso
modo gli uomini non rimarrebbero intrappolati se non si facesse balenare
loro la speranza di mordere qualcosa».
*
141 «Tanto per cominciare, la tua nave che doveva giungere dall’Africa,
secondo la tua promessa, con tanto di soldi e schiavi a bordo non è ancora
arrivata. E i cacciatori di eredità, ormai ridotti in bolletta, cominciano
a tirarsi indietro. Perciò, o sono io che mi sbaglio, oppure la fortuna
comincia di nuovo a voltarci le spalle».
*
«Tutti coloro che ho menzionato nel mio testamento, ad eccezione dei miei
liberti, potranno avere quanto ho lasciato loro solo a patto che taglino a
pezzi il mio cadavere e se lo mangino alla presenza del popolo».
*
Sappiamo che presso alcune popolazioni esiste ancor oggi l’usanza che i
vivi mangino i corpi dei loro parenti defunti, tanto è vero che spesso i
malati si sentono rinfacciare di rendere peggiore la loro carne. Perciò io
esorto tutti i miei amici a non sottrarsi alla mia volontà, invitandoli a
mangiarsi il mio cadavere con lo stesso gusto con il quale avranno di
certo mandato a quel paese l’anima mia».
*
L’enorme risonanza di tutta quella ricchezza accecava gli occhi e le menti
di quei poveracci.
*
Gorgia era disposto a rispettare la clausola.
*
«Non ho paura che il tuo stomaco si possa rifiutare. Seguirà le direttive
impartite, se gli prometterai che una sola ora di nausea verrà
ricompensata da un sacco di belle cose. Basterà che tu chiuda gli occhi e
immagini di buttar giù un milione di sesterzi invece di carne umana. E
poi, a tutto questo si aggiunge che un sughetto per modificare il sapore
lo troveremo. Infatti non esiste una carne che piaccia in sé e per sé, ma
viene lavorata ad arte perché risulti appetibile anche a uno stomaco cui
altrimenti ripugnerebbe. Se poi vuoi degli esempi che ti dimostrino quanto
sto dicendo, sappi che i Saguntini assediati da Annibale mangiarono carne
umana, anche se non aspettavano alcuna eredità. E lo stesso fecero gli
abitanti di Petelia nell’estremo bisogno, non aspettandosi da un banchetto
di quel tipo nient’altro se non vincere i morsi della fame. Quando
Numanzia fu espugnata da Scipione, si trovarono delle madri che
stringevano tra le braccia i corpi semidivorati dei figli».





Pubblicato da Raffaele Cecoro

Raffaele Cecoro ([email protected]) Casertano, laureato in giurisprudenza con una forte passione per la scrittura e per la letteratura. Da qualche mese ha cominciato la stesura del suo primo romanzo e nel tempo libero redige un blog letterario multitematico, il suo stile è un ibrido di humor e serietà.